Posts Tagged 'lutto'

Terremoti e vulcani

Sono stati giorni terribili. Pessime notizie, una dopo l’altra. Mentre la terra tremava in Emilia e tanti operai rimanevano schiacciati dai capannoni industriali, venuti giù come castelli di carta, un’altra giovane donna amica è stata portata via dal maledetto cancro. Quattro anni di malattia vissuti con estrema riservatezza, tanto da aver scoperto per la prima volta che il mio approccio talvolta può infastidire, ed essere giustamente respinto, se si sceglie di percorrere una strada diversa.

Ho avuto una crisi di nervi, bruttissima, dolorosa, come lava che dopo tanto premere trova il cratere da cui eruttare.

Un battibecco che in un altro momento avrei fatto decantare è diventato quel cratere, e c’è stata l’esplosione.

Ora credo che sia stato un bene aver urlato, e poi pianto, e poi respirato in silenzio e solitudine per un po’. Ormai lo so che le lacrime devono essere piante, e la rabbia espressa e mai covata, per non dare tempo al dolore di annidarsi nel corpo, a far danni.

Ormai lo so.

So che forse dovrei proteggermi di più, e imparare a tenere i nervi coperti.

Ma io non ho mai indossato le corazze, nemmeno quando infuriava la battaglia.

Luna piena

Mi piacerebbe poter tornare a raccontare con leggerezza le cose della vita. Quelle cose lievi che, per fortuna, non smettono di capitare, strappando un sorriso e massaggiando le contratture della vita.

Ora però il pensiero corre esclusivamente a come costruire qualcosa d’importante per ricordare Anna Lisa, a non fermare quella straordinaria onda di affetto da cui è stata accompagnata in questi mesi durissimi.

Oggi mi sento più sollevata, dopo aver parlato con suo marito, che lei nel blog chiamava Qualcuno, e aver condiviso con lui idee e progetti partoriti in questi dieci giorni. Idee e progetti che, mi ha assicurato, sarebbero stati gli stessi della sua Anna Lisa.

Ieri, mentre andavo a danza, guidando nella tangenziale est miracolosamente decongestionata, è apparsa improvvisamente la luna piena, enorme, stagliata sul cielo ancora chiaro, proprio davanti a me, bassa sul filo dell’orizzonte stradale.

Ho immaginato che in quell’istante tutti noi che eravamo su quella strada la stessimo guardando, con lo stesso incanto e con un’ identica commozione. In quella visione magnifica ho cercato mio padre e Anna Lisa, ho lasciato andare via gli umori melanconici, impastati a rabbia, e ritrovato una traccia di senso, un barlume di speranza, la poesia di cui talvolta il mondo ci fa dono.

Un anno

Deve passare almeno un anno. Un compleanno, un Natale, una Pasqua, un’estate. Si dice così, che questo è il tempo minimo necessario perché la morsa di dolore provocata da un lutto si allenti davvero.

Un anno fa è stato il giorno più brutto della mia vita, il più spaventoso. Perché vedere la morte strappare alla vita una persona fa paura. E se quella persona è tuo padre il cuore ti si spacca. Sgomenta l’implacabilità del tempo, quando il male è così feroce da riuscire a procedere indisturbato aggirando ogni cura disponibile.

E pure se non avrei sopportato di vedere un giorno in più mio padre in quello stato, quando poi tutto è finito non volevo, non volevo, non volevo aver pensato basta, portatelo via, maledetta, hai vinto tu.

Ancora, e sempre, con tutte le mie forze, sogno di tornare indietro nel tempo, nell’attimo esatto in cui quel processo devastante si è attivato e sogno di riuscire a bloccarlo. Agire sull’ineluttabile, rendere reversibile l’irreversibile. Cambiare il corso delle cose, e poi restituire al tempo il suo tempo:  di lasciar vivere, invecchiare e poi sì, certo, anche morire.

Ma dopo.

feste e ricorrenze sovrapposte

Per me che ancora il 25 aprile è l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo questa coincidenza con la Pasquetta non mi è piaciuta.

Come non mi piace il fatto che il prossimo 1 maggio, oltre a festeggiare i lavoratori ci sarà chi verrà a Roma per assistere alla beatificazione di papa Giovanni Paolo II. Con tante date, proprio questa doveva essere scelta?

Sarei stata meno polemica se almeno il tempo fosse stato più bello, permettendomi di fare il primo bagno della stagione e di non dover scappare sotto la pioggia dal colle maremmano. Ma tant’è, la tradizione è  stata rispettata. E dopo un ottimo pranzo pasquale, miracolosamente soleggiato, uno scampolo di pomeriggio alla spiaggetta in contemplazione del mare gelido e calmo non ce la siamo fatta sfuggire. Come le chiacchiere con l’amica ritrovata un anno fa, e con il resto delle persone care che ritrovo in quei luoghi.

Come i colloqui muti e struggenti con le sue cose, le tracce vivide della sua presenza assente, da tutti evocata. Chi con lacrime disperate, chi con sguardi  smarriti.

Spleen di aprile

Sono passati sei mesi. Volevo venire da te almeno oggi, per salutarti nel mare e piangerti lì, dove ti abbiamo lasciato. Non è stato possibile – ma quando imparerò a non alimentare il rancore e il rimpianto?

Sarebbe stato facile, ero sola, e invece di fermarmi nel parco assolato e affollato dove mi sono lasciata accarezzare dal far niente quasi estivo e dagli affetti amicali, potevo proseguire per un’ora e mezzo, e fare l’unica cosa che avrebbe potuto placare questa inquietudine rabbiosa e dolente. Questa tristezza lacrimosa, questo senso di non-felicità, di incolmabile vuoto, di naufragio e sbandamento. Mi sento persa, e sola, e come se le cose belle fossero irrimediabilmente finite.

Come se il tempo avesse divorato la vita.

Triste primavera

La primavera dovrebbe iniettarmi buon umore, invece non è così. Mi sento sconclusionata e stordita, mi avvicino quasi per forza d’inerzia al giorno successivo, e a quello seguente, e al successivo, e mi dico to’, sta finendo marzo, ma guarda, è primavera, l’ora legale, le giornate che si allungano…

Si avvicinano date difficili da attraversare senza dolore, senza annaspare tra i ricordi di quegli ultimi sei mesi iniziati ad aprile, e finiti il 3 ottobre.

Sei mesi, mezzo anno. Sei mesi per andar via, sei mesi di assenza.

Le lacrime che tornano, la vita che se ne va e si trasforma

Mi ha telefonato Piero. Un caro amico che ha lasciato Roma per la Maremma e ha la casa sul colle vicino alla nostra.

“Sai da dove ti chiamo?”

Ho capito subito. Dalla spiaggetta, lambita da quel mare in cui abbiamo disperso le ceneri di papà.

“C’è un sole caldo, è bellissimo.”

“Allora devi pensare un po’ a papà.”

“Ci penso, ci penso sempre quando vengo qui, o alla spiaggia grande.”

Dopo, tornando a casa, il cuore ha ripreso a piangere, dopo un periodo abbastanza lungo di serenità. Mi aveva fatto bene vedere Hereafter di Clint Eastwood, un film commovente e confortante sull’aldilà e sulla vita di chi resta.

….

Ho ricominciato a piangere, proprio adesso. Mi manca, mi manca tantissimo.

In questi giorni di lavori di ristrutturazione in un bagno di  casa lui sarebbe stato spesso qui a supervisionare, dare consigli preziosi, e adesso avrebbe disegnato un mobile da mettere nella nicchia dove prima c’era la vasca.

Mi guardo intorno, lo cerco, lo vedo. Ciò che lenisce il dolore è che lo vedo sempre com’era prima. Com’era. Gli sorrido, e quando sono sola gli parlo.

Mentre accompagnavo Lula a danza, ieri, le ho raccontato di quanto mi fossi intristita, dopo la telefonata – pur piacevole e affettuosa – con Piero, perché suo nonno che non c’è più. Lei mi ha detto che le succede spesso, in momenti inaspettati, di pensare a lui. E intanto mi carezzava la guancia, e i capelli. Ci siamo date tanti bacetti. L’ho guardata.  La mia ragazza che sta per essere iscritta al liceo. Al mio stesso, amatissimo, liceo.

Il tempo passa, e le nostre vite si trasformano.

Buona vita

E così ci siamo. Il primo Natale senza papà, il dolore che scava sempre più, alimentando la nostalgia, la mancanza. Continuamente mi scopro a cercarlo, chiamarlo, mentre guido immagino che sia lì accanto a me, lo imploro di tornare – mamma ha un disperato bisogno di te, e anche io, anche Cris, Lula, Sten, tutti abbiamo perso qualcosa che ci fa sentire mutilati – spero di perdere conoscenza e risvegliarmi grazie alla sua voce che mi chiama e al profumo del caffè che mi portava quando andavo ancora a scuola. Mi concentro. Voglio un miracolo, la reversibilità, quelle ceneri mescolate al mare ricostituirsi in corpo, anima, voce, sguardo, odore. Rivoglio mio padre.

E piango insieme a Mia, che ha perso stanotte sua madre, e a lei, che l’ha persa una settimana fa. Piango e maledico il cancro che continua a distruggere vite, accanendosi su chi già vive in un equilibrio precario. Come se il vento soffiasse più forte su noi funambole.

Come faccio a fare gli auguri, come li faccio questi auguri?

Ci sono le cose belle, sì, certo. Ancora accadono, nonostante tutto. Accade che la prof. d’italiano mi scrive un biglietto con allegata copia del tema di Lula sulla felicità, per dirmi che le si è aperto il cuore, e che c’è ancora speranza se una ragazza di 13 anni scrive certe cose.

Accade che sto facendo danza contemporanea, e mi piace, mi piace tanto.

Accade che ieri i ragazzi hanno fatto una manifestazione bellissima che dimostra quanto siano forti e intelligenti. E sì, che c’è ancora speranza in questo paese disastrato.

Accade che il 13 gennaio farò la presentazione del libro con tanta bella gente, incrociando le dita mentre un editore valuta seriamente l’idea di pubblicarlo.

Accade che vedo arrivare l’amore a chi lo stava aspettando da tanto.

Li faccio così, gli auguri: che possano germogliare i fiori, e maturare i frutti. Che le foglie morte fertilizzino il terreno. La vita.

 

 

L’albero

Non ho potuto esimermi dalla preparazione dell’albero. Lula ci teneva, e non era giusto costringerla a rinunciare anche a questa piccola tradizione.

Così, mentre lo montavo, e aprivo i rami finti uno ad uno aspettando che lei venisse ad aiutarmi per decorarlo, il dolore è tracimato, incontrollabile, le lacrime si sono versate sulle sfere dorate, sugli angioletti di carta e porporina costruiti da Lula all’asilo, sui nastri sempre troppo corti, sulle fragole di cartapesta, le stelle di das, il filo elettrico con le luci colorate.

Sten mi ha trovata così – smetti, smetti se ti fa tanto male, se pensi a lui che faceva l’albero quando eri bambina.

Ma non ho smesso, ho continuato a pensare a lui, a queste feste che non saranno feste, al giorno che se n’è andato, allo strazio che non smetterà di essere strazio, alla mancanza che quando ricomincia a trafiggere il cuore vorresti abbandonarti a lei, perché sembra non esserci altro da fare. Farsi trafiggere il cuore, o lasciarsi avvolgere i sentimenti da un bozzolo, per non sentire più nulla.

Poi Lula è arrivata, non ho fatto a tempo ad asciugare le lacrime, ho lasciato che si seccassero mentre procedeva l’addobbo, mi ha guardata senza commentare, ma ha solo chiesto di cambiare musica – che Paolo Fresu era troppo triste – ha scelto lei un cd di Sheril Crow e  ci siamo messe a cantare come quando siamo in viaggio.

Alla fine anche l’intermittenza delle luci funzionava. Il puntale un po’ storto, come sempre.

Ho provato a raddrizzarlo, ma resta così, pencolante. Come me.

Funambola triste

Oggi è cominciata male. Malissimo. Tre volte ho provato ad alzarmi dal letto, e tre volte ci sono tornata, trattenuta da un senso crescente di apatia, schiacciata dal peso di un giorno nuovo. Succede sempre quando Lula non c’è. Era a dormire da un’amica, e sarebbe tornata in mattinata.

Mi sono forzata, ho recuperato un po’ di energia provando a eseguire i cinque riti tibetani, di cui mi aveva parlato la bloggheressa Widepeak tempo fa. Visto che si tratta di posizioni yoga eseguite con una certa sequenza e con qualche variante non è stato difficile.

Lula è tornata e riuscita. Ho letto il post di Anna Lisa, e sono crollata. Non riuscivo a smettere di piangere, nemmeno grazie alle parole e ai gesti affettuosi di Sten.

Il dolore è dolore, che scava e procede giorno dopo giorno.

Ieri sono arrivata a pensare che oggi non avrei mai potuto scrivere il libro che ho scritto. O forse sì. Perché alla fine, nel titolo, ho scelto la metafora del funambolismo e non quello della battaglia che presuppone vincitori e vinti.  Mi sono illusa di poter insegnare a camminare su quel filo teso sul vuoto anche a chi soffre di vertigini. Prima bisogna curare le vertigini, poi incoraggiare ad affrontare un pericolo equilibrismo.

Passerà. Tutto passa, viene lavato dal tempo, cicatrizzato dall’abitudine alla nostalgia.




Come una funambola

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