Archive for the 'Filosofia dell’esistenza' Category

Anna, Michela e la libertà di raccontare

Chi mi conosce o ha letto questo blog nel corso degli anni sa che prima di Michela Murgia è stata Anna (https://widepeak.wordpress.com) a farmi capire cosa significhi non considerare il cancro un nemico da combattere e quanto fosse rischioso l’uso delle metafore belliche, soprattutto quando la malattia avanza e le prospettive di guarigione si affievoliscono, fino a scomparire del tutto.

Anche grazie a lei ho modificato il titolo del mio libro, che inizialmente doveva essere Nella battaglia, perché così avevo taggato i post del mio racconto pubblico quando ho scoperto che il cancro al seno che credevo aver debellato aveva invece metastatizzato nel fegato. 

Con il tempo, e anche grazie all’incontro con Anna, la metafora bellica ha iniziato a starmi stretta, e ne ho scelta un’altra, che incarnasse meglio la condizione di precarietà che si vive dopo una diagnosi di cancro. Mi sentivo più come una funambola che come una combattente.

Ho cercato di dare un senso a questo cambiamento di linguaggio anche raccontando le diverse esperienze di narrazione della malattia attraverso un blog in Scriverne fa bene. narrare la malattia, curarsi con un blog (Zona, 2012). In ogni storia l’uso delle parole che definiscono la malattia e le cure rappresenta una scelta più o meno ponderata, ma certamente indicativa di libertà e desiderio di infrangere i tabù legati al cancro.

Anche oggi, a distanza di quasi diciott’anni da allora, se qualcuno mi dice “tu che hai sconfitto il cancro” dico “no, non l’ho sconfitto. Meglio pensare che le cure hanno funzionato e sono guarita.”

Tutto quello che ho fatto, nei mesi successivi alla diagnosi, è stato affidarmi alla medicina accompagnandola con tutte le strategie più o meno alternative che mi sembravano utili a guarire.

E nessuno mi ha mai detto che il mio cancro e le mie metastasi non fossero curabili.

Ma quando c’è stato il sospetto che oltre al fegato le metastasi avessero attaccato anche una vertebra ero sicura che sarei morta. E per un pomeriggio intero mi sono messa a letto, a piangere, pensando a Lula che era troppo piccola per perdere sua madre.

Anche allora nessuno mi ha detto che non sarei potuta guarire. Anzi, che c’era molto da fare. Ho pure iniziato a fare pratiche di autoguarigione, convinta che la mia testa avesse il potere di sanare quel grumo di mie cellule che avevano svalvolato per qualche ragione che risiedeva dentro di me, nel mio corpo, nella mia anima.

Poi quel sospetto è stato fugato, io ho continuato a fare la pratica, ma le metastasi del fegato erano lì, andavano tolte chirurgicamente. E di nuovo chemio, e terapia ormonale. E insomma, per me le cose sono andate bene, ma ci ho messo anni e anni a sentirmi davvero guarita.

Anna, invece, quando ha visto che le sue metastasi non sparivano, anzi, si riformavano, ha capito che con il cancro, nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto conviverci, e per un tempo non troppo lungo: “ho ben chiari i confini della mia condizione e sono pronta a esplorarne i limiti ed eventualmente a superarli se la scienza me lo consentirà. Ma non posso fare finta di non aver letto queste statistiche. Questo in qualche modo significa che il pensiero della morte spesso mi è vicino. Non come uno spauracchio, non come un mostro pauroso. Semplicemente ci penso.” (Dal post del 17 febbraio 2011, cit. a p. 38 di Scriverne fa bene)

Anna è morta quasi 10 anni fa, ed è stato inevitabile pensare a lei quando a maggio ho letto l’intervista di Michela Murgia nella quale rivelava di avere un cancro metastatico e quindi una ridotta aspettativa di vita.

Ho iniziato a seguire con commozione la strada che aveva intrapreso, e tante volte avrei voluto contattarla per dirle quanto la comprendessi e considerassi importante che una donna così attiva nel dibattito pubblico avesse deciso di condividere la sua condizione di malata terminale. Non l’ho fatto, e me ne rammarico.

Ho sofferto, come certamente ha sofferto lei, quando leggevo commenti infastiditi, o veri e propri attacchi disgustosi per la libertà con cui lei aveva scelto di vivere e rendere pubblica la fase più delicata e difficile della propria esistenza.

L’hanno accusata di volersi fare pubblicità e di usare la malattia per aumentare le vendite del libro che aveva appena scritto. Che miserabili! 

C’è chi ha addirittura messo in discussione il fatto che Michela potesse affermare che il suo cancro, metastatizzato ormai ovunque, non fosse più curabile.

Qualcuno ha considerato questa consapevolezza un “cattivo esempio” per altre persone gravemente malate, invece di leggerla come l’estremo atto di libertà, uno squarcio nel buio che terrorizza.

Altri si sono indignati per la “spettacolarizzazione” di una vicenda così intima, come se ci fosse un solo modo per affrontare il cancro e la fine della propria vita: quello del silenzio, della solitudine e della vergogna, quello del nascondimento dei segni che sembrano spaventare più chi li guarda di chi li porta sul corpo o li esprime con le parole.

Io invece ho trovato confortante vedere i sorrisi luminosi di Michela, i cappelli e i turbanti colorati, gli abiti bianchi del matrimonio contratto per garantire che le proprie scelte fossero rispettate, visto che la sua famiglia queer non aveva lo stesso riconoscimento di quella tradizionale. 

È stato un conforto ascoltare e leggere le parole con cui ha spiegato il senso delle sue scelte. Parole, come ho già detto, per me non del tutto nuove. Ma pronunciate da una donna con un profilo pubblico così forte certamente hanno avuto e avranno un impatto rilevante e potranno contribuire a infrangere il muro di pregiudizi e di cattivi giudizi che ancora gravano sul cancro.

E allora grazie ad Anna prima, a Michela poi, per avermi insegnato che si può parlare della propria vita e della propria morte con la stessa, faticosissima, libertà.

Come sto?

Non bene, grazie.

Per essere precisa: fisicamente bene, meno per quanto riguarda psiche, anima, emozioni.

È un lungo periodo in cui mi sembra di galleggiare, trascinata dalla corrente che va dove deve andare, indipendentemente dalla mia volontà e dai miei desideri.

È un lungo periodo di accompagnamento alla conclusione di una lunghissima vita, con il suo carico di dolore, attese, speranza, ricordi, paura del distacco e desiderio di assecondare le scelte espresse prima di non riuscire più a farlo chiaramente. Pena per uno sguardo perso chissà dove, per l’aggrottarsi della fronte nell’assopimento, per le parole sigillate dall’immobilità, o appena mormorate in dichiarazioni di amore e di stanchezza.

Ripenso ad altri commiati, più o meno espliciti e attesi. A quello da mio padre, soprattutto. Allo sgomento che sempre attanaglia il cuore quando si scorge quell’orizzonte opaco, quell’aldilà sconosciuto che chiama e atterrisce.

E ancora, di questo periodo non felice, detesto i miei scatti, la mia insofferenza, e tutti quei rimpianti, un rimestare tossico tra le scelte compiute in passato che potrebbe invece diventare fertile se riuscissi a dargli una forma, uno sbocco creativo, o quanto meno esistenziale.

Questo tempo che corre e consuma non riesco proprio a viverlo come immaginavo che avrei fatto dopo l’ultima mia guarigione, e ancor più dopo la morte della mia cara amica: ogni giorno come fosse l’ultimo, ogni istante da assaporare, cogli l’attimo – carpe diem – sogna, progetta, realizza, sii felice.

P.S. Un breve soggiorno madrileno mi ha fatto ricordare quanto fanno bene, insieme all’amore in tutte le sue forme, i viaggi e l’amicizia. Olè.

Passaggio 2022-2023

Che l’anno passato sia stato pessimo è un dato di fatto.

Dopo la pandemia, che ha lasciato i suoi strascichi economici e sanitari, una guerra in Europa che non accenna a finire, con il suo carico di morte e distruzione, la crisi energetica, l’incubo atomico.

Tutte le guerre e i conflitti in corso, una rivolta, quella in corso in Iran, iniziata grazie al coraggio di tante donne, repressa con violenza dal regime, con arresti, uccisioni, esecuzioni.

Qui in Italia un governo di destra destra, guidato per la prima volta da una donna la cui storia politica affonda nel partito missino, e che esprime un presidente del Senato che tiene in casa i cimeli di Mussolini.

Siccità, estati roventi, alluvioni, frane, Natale estivo. Il cambiamento climatico non è un’espressione astratta.

La mia amata gatta è morta, aveva vent’anni e me lo aspettavo, mi manca tanto, e ancora non siamo riusciti ad adottarne un’altra, o un altro. Ci limitiamo a fare i catsitter di due mici che Lula e il suo compagno hanno da un mese. Sì, la piccola Lula ha una casa, un compagno, due gatti, un futuro in costruzione. E questo è un bel regalo del 2022 per lei.

Io invece ho trascorso sei mesi a studiare come una pazza per un radicale cambiamento lavorativo, ma non mi è riuscito. Ho capito che non ho l’età per sostenere certe prove. Ho sacrificato ferie, fine settimana, serate, svaghi, e soprattutto il tempo da dedicare alla scrittura.

Gli altri sei mesi invece li ho impegnati come non mai sul lavoro, che a questo punto devo tenermi, dopo 25 anni di continue frustrazioni e delusioni, mitigate dalle poche cose belle realizzate un po’ per tigna, che non riescono però a concretizzarsi nell’apertura di una strada nuova. Non ho sufficiente coraggio, o forse dentro di me so che non sarebbe comunque la mia strada.

Immaginavo che il 2022 sarebbe stato finalmente l’anno senza farmaci antitumorali, e invece gli ormoni hanno ripreso a ballare, il ciclo mestruale è tornato, e dopo un’estate trascorsa incredula a osservarne la regolarità ora mi tocca una puntura mensile per essere certa di essere in menopausa.

A compensare le troppe pesantezze del 2022 è arrivata però, pochi mesi fa, la leggerezza e la libertà della danza, che avevo abbandonato per la forzata pausa pandemica e per una certa pigrizia a seguire un corso non proprio dietro casa. E invece ho preso la decisione giusta, grazie ai frequenti inviti di una ex compagna del corso fatto negli anni ’10. Nuova insegnante, nuovo gruppo, ma con tante compagne ritrovate e scoperte. Il corpo e lo spirito ringraziano.

io sono una

Io sono una simpatica ragazza

Io sono una donna un po’ stanca

Io sono rimasta incastrata in uno spazio troppo stretto

Io sono lucida quando la mente è annebbiata

Io sono un’inguaribile romantica nascosta nelle vesti sgualcite dal senso pratico

Io sono una scrittrice che ha paura di non esserlo

Io sono una bibliotecaria esperta di indicizzazione semantica

Io sono una moglie amante amica appassionata

Io sono una persona responsabile. Troppo

Io sono una ex malata di cancro che è guarita grazie alla medicina e al dottor Zeta, alla scrittura e alla blogterapia, al qi gong, alla meditazione corpo-specchio, all’amore della mia vita, Sten, all’amore della mia vita, Lula, che cresceva e volevo vedere crescere, a mamma e a papà che non c’è più, a Cris sorella mia, alle amiche, alle amiche del cuore che non ci sono più, agli amici, alla gatta Pippi, che non c’è più, al cervello anarchico di Enzo Soresi, allo yoga che però non potevo fare quando le cellule facevano casino, alla testardaggine di noi torelle che non vogliamo darla vinta a chi ci vuol male

Io sono una e tante, mi piaccio e non mi piaccio. Però mi piaccio più di non piacermi

Io sono una che ricorda tutto, e non butta (quasi) niente

Io sono un’abitudinaria capace di reggere le mazzate che ti scaraventano altrove

Io sono un animale socievole, ma quanto mi piace il silenzio della solitudine, qui ora, nella stanza che Lula non abita più, la mia ragazza grande che vive per conto suo con il suo amore e due gatti

Io sono una che amava la bella politica, Enrico Berlinguer, il comunismo italiano. E adesso?

Io sono una che ha fatto scelte di cui si rimprovera troppo spesso

Io sono una che però, alla fine, trova il bandolo della matassa

[questo è un esercizio di Jack Effron, da Il libro di idee per la scrittura. Come superare il blocco della pagina bianca, Dino Audino, ed. 2013: fate una lista iniziando ciascuna voce con le parole “io sono un…”]

Pensieri del quaderno giallo

Dal quaderno giallo, con qualche cambiamento, 26 settembre 2020.

Devo impormi, con disciplina, almeno un’ora di scrittura a mano.

Ho bisogno della penna che scorre sulla carta, senza affaticare gli occhi, di riconoscermi nella grafia che mostra ogni ripensamento o esitazione, l’inclinazione delle frasi, libere di sfuggire al controllo e all’ordine della tastiera e di un programma di scrittura.

Il cervello funziona meglio, il corpo, non solo le dita, è interamente coinvolto nel  processo.

In questi momenti, mentre scrivo su uno dei tanti quaderni o diari che ho riempito di parole da quando avevo tredici anni mi sembra di ritornare indietro nel tempo, quando la vita era ancora tutta da costruire e le scelte da fare avrebbero potuto cambiare il corso degli eventi e del mio futuro.

Eppure, come dice il protagonista di un romanzo di Paul Auster che sto leggendo, solo dio, per chi ci crede, può sapere se aver preso una strada invece di un’altra ci avrebbe fatto arrivare in tempo a quell’appuntamento che invece abbiamo perso. Noi no, non sappiamo se sull’altra strada avremmo trovato un altro rallentamento, un ostacolo che magari sarebbe stato ben più fatale di un banale ritardo. Non ci è dato conoscere il destino che ci è riservato e, soprattutto, non possiamo avere l’assoluta certezza che le nostre decisioni abbiano il potere di modificarlo significativamente.

E ancora: quando finisce il tempo utile per tornare sui nostri passi o, con uno scarto improvviso, cambiare direzione, lasciare la strada comoda, nota, per certi versi rassicurante, per quella più accidentata che s’inerpica verso l’ignoto regalandoci però quella scossa di emozioni che credevamo irrimediabilmente perdute?

Si tratta sempre di questo, destino e libertà, che ci accompagnano nel tempo dell’esistenza.

Ritorno al mio karma

Ecco, l’estate arrivata già da un mese, di questo anno bisestile e funesto.

Ieri, pedalando, pensavo a quanto ne avrei scritto, di Covid, pandemia, quarantena, mascherine, politica dell’emergenza, qui, anni fa. Quante riflessioni, istantanee, parole con cui costruire un senso.

Pensavo che sono invecchiata, e però non riesco più a dare parole al tempo che passa, alla vita personale che prosegue senza scossoni, ma con una scia di rimpianti che si portano dietro l’intera sequenza di eventi provocati da scelte che se non si fossero compiute, allora… Non sarebbe successo questo, e quest’altro e quest’altro ancora. E invece, se avessi deciso altrimenti, sarebbe potuto accadere questo e quest’altro e quest’altro ancora, fino alla dolorosissima presunzione (o colpevolizzazione) che avrei potuto evitare gli accadimenti più nefasti.

E invece no, reagisce con orgoglio la parte di me più sana, osservando amorevolmente ciò che ha di più caro. Le scelte compiute hanno determinato anche questo, che non cambierei mai. E poi non è ancora troppo tardi per rimettersi in gioco, percorrere strade nuove, rispolverare vecchi desideri, rianimarli, farli risplendere al sole di luglio.

 

La vita ai tempi del Covid-19

Nessuno di noi immaginava che in poco tempo ci saremmo trovati a vivere una situazione così estrema, un’epidemia da fronteggiare con misure drastiche che limitano fortemente le nostre libertà e cambiano radicalmente il nostro modo di vivere. Le città improvvisamente si svuotano, i corpi si allontanano, le abitudini cedono il passo a nuovi comportamenti che diventano tali dopo essere stati suggeriti, consigliati, infine imposti per legge. Il nemico invisibile si diffonde, dilaga, e ci costringe brutalmente a fare i conti con la parola contagio.

Fino a un paio di settimane fa mi rivolgevo infastidita a chi si mostrava spaventato: “ho avuto il cancro, le metastasi, quelle sì che mi facevano paura.” Come se non ci fosse una drammatica relazione tra questo virus e le altre malattie, non contagiose, proprio come il cancro.

Ora è tutto cambiato, l’epidemia proprio oggi è stata dichiarata pandemia, la velocità di trasmissione ha costretto il governo a prendere misure drastiche, sono tornata da una settimana di vacanza in montagna appena in tempo, piena di preoccupazioni e sensi di colpa. E mi sono ricordata di quando, in piena chemio e con le difese immunitarie quasi a zero mi ero dovuta ricoverare in ospedale perché avevo la febbre, che non scendeva.

Penso a tutte le persone che sono ora sotto chemio, e rischiano, rischiano moltissimo. In alcuni casi si sta consigliando di sospendere le terapie. Sapete cosa significa quando per qualche ragione sei costretta a saltare un ciclo di chemio? Che ti viene una paura ancora più fottuta, perché stai interrompendo la cura che ti salva la vita. E non vedi l’ora di poterla fare, aspetti i risultati dell’emocromo di controllo che ti dica, in sostanza “va bene, i globuli bianchi sono risaliti, si può ricominciare a bombardare il bastardo.”

E poi c’è il problema della terapia intensiva, i posti che rischiano di non esserci più, non solo per i malati di Covid-19 ma pure per tutti quelli che per molte altre ragioni hanno bisogno di essere attaccati a un respiratore, per esempio. Anche solo per morire senza sofferenza.

Penso alle persone anziane che rischiano pure moltissimo, e poco fa, quando sono passata a salutare mia madre e a portarle qualcosa di cui aveva bisogno mi è salito un groppo alla gola mentre m’infilavo i guanti monouso per trafficare con il suo tablet per spiegarle come usare Facebook, lontana un metro da lei, e sfuggendo ai suoi avvicinamenti involontari. Perché lei ancora non ha imparato, come molti di noi, a vivere a un metro di distanza dagli altri, toccare le maniglie con un fazzoletto, con la manica di un maglione, a lavare ‘ste cazzo di mani in continuazione. Lei non vede i ragazzi del bar con le mascherine, il metro attaccato al bancone, il dispenser di amuchina (no, l’amuchina è diventata oro, gel disinfettante fatto in casa), la città deserta, i negozi chiusi. Lei resta a casa, prende aria in giardino, per fortuna ce l’ha, e si dispera per noi. “Be’, sembra proprio come quando c’era la guerra,” mi ha detto. No, per fortuna non è come la guerra. Non c’è nessuno che volontariamente abbia provocato tutto questo. Non è una guerra, ma un’emergenza sanitaria.

Il lato positivo è che da tutta questa storia, dalla quarantena, questo isolamento forzato che deve aiutare a rallentare e poi fermare il contagio, le persone riescono a tirare fuori anche tanta creatività: Lula e altre 9 amiche e amici hanno organizzato un Decameron 2.0, ognuno rappresenta un personaggio di Boccaccio e nel corso delle dieci giornate previste registra un video dove racconta una delle novelle rivisitate in chiave moderna, che viene pubblicato sui social (Facebook e Instagram)

e fatta lor brigata, da ogni lato separati viveano

 

Non mi rassegno

Della mia vita questo blog non racconta quasi più niente. Della mia vita, di questo triste Paese che respinge migranti, cancella la memoria, premia chi soffia sul fuoco dell’odio, inneggia a chi alza muri, chiude porti, stravolge il sentire comune, promette di tornare al passato più oscuro, illude con promesse apparentemente irresistibili. Menzogne.

Ma quando c’è chi diffonde messaggi quotidiani che stanno cambiando insieme ai connotati culturali e politici dell’Italia, la sua stessa anima, a forza di strappi, provocazioni, violazioni delle più elementari norme di convivenza civile, non possiamo restare in silenzio, bisogna usare le nostre parole, rispondere e rispondere, e ricostruire, indicare un’altra strada, riaccendere la speranza in chi scuote la testa e si sente impotente.

Ci vorranno tempo, passione, e anni di resistenza.

Ma io, a Salvini, non mi rassegno.

il virus influenzale del duemiladiciotto

L’anno nuovo è iniziato con un bacio a Sten davanti al Circo Massimo in festa, un brindisi tardivo a casa e il risveglio con una brutta influenza fatta di febbre, tosse e spossatezza.

Notti insonni, affollate di pensieri allucinogeni e montagne di fazzoletti usati, combattute tra medicine, rimedi omeopatici, sciroppi al miele, risvegli ogni giorno più stremati per le ore accumulate di non riposo.

Oddio come la faccio lunga, solo per un’influenza!

E però l’ultima volta che ricordo di essere stata tanto male ero immunodepressa e spelacchiata, ricoverata postchemio al San Giacomo, e perciò questo episodio, dopo anni da wonderwoman, mi ha destabilizzata molto.

Il mio amico omeopata, che ho consultato quotidianamente per trovare il rimedio giusto a secondo dell’andamento della malattia, mi ha assicurato che dopo un’influenza così sconquassante poi sarei stata molto molto meglio. Un resettaggio che ogni organismo sano ogni tanto richiede.

Quando la febbre è scesa definitivamente ed è tornata una tosse canina ho chiesto all’ex medico di famiglia in pensione di venirmi a visitare. Laringotracheobronchite post influenzale, capitolazione agli antibiotici e necessità di restare ancora a casa per evitare rischi polmonari.

Ma oggi, oggi finalmente mi sento bene. La notte è passata tranquilla, con sporadici e brevi risvegli, e se non fosse stato per i rumorosissimi lavori in corso nell’appartamento al piano di sopra avrei continuato a recuperare il sonno perduto.

Dopo dieci giorni di pausa obbligata sono riuscita a fare di nuovo i Cinque tibetani e l’energia ha ripreso a circolare.

Anche prendersi un banale virus influenzale può essere interpretato come un segnale di ribellione del corpo e della mente, l’invito brusco a fermarsi e aspettare.

Ho ripensato, nelle notti senza sonno e quasi senza respiro, a quanto mi stesse mancando la scrittura, lasciata appassire in un orticello abbandonato, a quanto mi sentissi priva di un valvola di sfogo intellettuale e creativa.

Ho ripensato al 2017 come l’anno dei cinquanta arrivati con un carico di dolore da elaborare, di vuoti incolmabili e nuove preoccupazioni che hanno reso più fragile la mia resilienza.

Il 2018 è iniziato, ma è come se non lo fosse ancora, come si fosse fermato il 1 gennaio per strapazzarmi, interrogarmi e rimettermi in piedi.

Ecco, adesso possiamo cominciare.

 

Ho bisogno di poesia

“[…]Ho bisogno di sentimenti,

di parole, di parole scelte sapientemente,

di fiori detti pensieri,

di rose dette presenze,

di sogni che abitino gli alberi,

di canzoni che facciano danzare le statue,

di stelle che mormorino all’ orecchio degli amanti.

ho bisogno di poesia,

questa magia che brucia la pesantezza delle parole,

che risveglia le emozioni e dà colori nuovi. […]

Alda Merini (da La volpe e il sipario)

Ho nostalgia di questo luogo, della consuetudine svanita a raccontare di me e assecondare il bisogno profondo di specchiarmi nelle parole e da qui ripercorre poi i fili intrecciati nella trama dell’esistenza.

Un modo allora inconsueto di trovare conforto e nutrimento per l’anima, esibire e nascondere con il giusto equilibrio, provare la sensazione nuova di essere compresa e conosciuta da estranei, lettrici e lettori che grazie a questa magia, sì, la magia che ci permette di raccontare al mondo intero quello che vogliamo, leggeranno tra poco queste parole.

Come ora, che la gatta è accoccolata su di me, il muso poggiato sull’avambraccio sinistro, mentre scrivo. E scrivendo avverto la vibrazione delle fusa, mentre le dita sfiorano i tasti con un tocco leggero per comporre queste frasi.

Un pomeriggio tranquillo, dopo il pranzo domenicale di famiglia, il cambio di stagione, se è vero che la stagione è cambiata dopo una lunga estate che pareva non finire mai.

Tra pochi giorni un viaggio a Budapest per festeggiare un compleanno importante di Sten, anche lui una cifra tonda, com’è stata la mia a maggio, come sarà quella di Lula a dicembre.

Anche per lei un viaggio, anche lei, la mia Lula ormai grande e diversa da come la raccontavo qui, Lula bambina.

 

 


Come una funambola

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