Archive for the 'Storie' Category

I libri ci salvano

L’ho imparato tra i diciotto e i diciannove anni, dopo aver letto tutti e sette i volumi della Recherche di Proust, per la tesina sul tempo e la memoria: l’arte, la letteratura, strappano le nostre vite all’oblio e la proteggono dagli assalti e dalla distruzione compiuti dal tempo. La salvano.

La memoria involontaria, quella memoria quasi fisica, fatta di odori e sapori, dei suoni di una sinfonia, di sensazioni che improvvisamente tornano a resuscitare il passato, ha il potere, se riconosciuta e trattenuta nel libro che si sta scrivendo, nell’opera che si sta realizzando, di ricostruire la realtà e renderla immortale.

Poco fa, leggendo la recensione di Paolo Di Paolo a un romanzo di Matt Haig, mi sono imbattuta in un’idea complementare a quella proustiana del libro che già esiste dentro ciascuno di noi e che viene portato alla luce, traducendolo, con la scrittura: l’idea certamente non originale, ma sempre affascinante, è che i libri contengono vite potenziali, tutte le vite che non abbiamo potuto o voluto vivere, consegnandoci quindi una seconda (terza, quarta, quinta…) opportunità, che esiste almeno finché esiste una biblioteca che conserva quel libro, e ci permette di leggerlo.

Nella recensione, e immagino nel libro recensito, c’è un riferimento alla metafora delle sliding doors (dal film bellissimo che si chiama appunto così) su cui mi capita spesso di ragionare, scrivere (anche in un recente post, a proposito di 4321 di Paul Auster) e immaginare in che modo renderla il motore di una storia da scrivere. Le occasioni mancate o colte nella vita quanto dipendono dall’istante in cui una porta si apre o si chiude, scatenando una serie di eventi apparentemente inevitabili? Cosa pesa di più: il caso, la volontà, o il destino? Oh, certo, farsi queste domande riguarda la filosofia, soprattutto se si è atei come me. Ma riguarda moltissimo anche la scrittura e la lettura. Le parole a cui aggrapparsi per dare senso all’insensatezza e salvarci da quei buchi neri di cui la vita è disseminata.

Libri per vivere la vita che abbiamo o non abbiamo vissuto, la vita che non è stata e che sarebbe potuta essere, quella che abbiamo ancora tempo per vivere, o almeno per immaginare.

I fantasmi a cui dire addio

Ancora non avevo avuto voglia di scrivere il primo post del nuovo anno, anche perché la fine del 2019 è stato un periodo faticoso, tensioni e preoccupazioni di varia natura che si sono allentate grazie a un lungo e necessario periodo di ferie. Anche le splendide giornate di sole e cielo azzurro, che solo oggi la pioggia ha interrotto, hanno contribuito a migliorare l’umore, a godere della vita che ho, delle persone che mi circondano, della capacità di continuare ad avere progetti e prospettive nonostante gli inciampi, le delusioni, e tutto l’apparato soffocante di rimpianti.

Ma stamattina ho finito di leggere un libro bellissimo, Addio fantasmi di Nadia Terranova, un libro che mi aspettava da quando ho letto la conversazione avvenuta tra l’autrice e la scrittrice francese Annie Ernaux.

terranova

Quando di un libro ti appunti delle frasi, le rileggi a voce alta, le ripeti dentro di te fino a impararle quasi a memoria, significa che quelle frasi dicono delle verità che sono anche tue, verità che per quanto dolorose danno senso al dolore, lo leniscono, insegnano a lasciar andare le ossessioni, a colmare i vuoti lasciati da un’assenza, accettandola, perché “la vita non si fa con i residui, con quello che ti tieni come scorta. Non ne hai un’altra di ripiego, dove mettere le cose che non fai.”

E ancora: “Nessuna risposta può placare i sopravvissuti. Esiste un armadio pieno di risposte diverse che i vivi si misurano a seconda della giornata […] Ma una vita parallela non c’è da nessuna parte, non esiste niente se non quello che è esistito.”

La vita è un istante, ein Augenblick, e le decisioni rimandate possono diventare decisioni mai prese, destini irrimediabilmente segnati.

“… doveva aver rimandato la scelta ritenendo di avere davanti a sé un calendario illimitato, di poter godere del tempo necessario per poter mettere le cose a posto; ma la vita è ein Augenblick, l’irregolarità è la sua unica regola, i fatti scorrono accanto a noi mentre ci illudiamo, un giorno, di dominarli. Ecco perché mi rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro esercitavo una signoria assoluta. Di quello che scrivevo ero sovrana.”

Ecco, forse, perché dopo aver finito di leggere questo libro ho sentito il bisogno di tornare qui, nel blog dove oltre quindici anni fa ho iniziato a raccontarmi: per non dimenticare che la scrittura è anche il luogo dove provare a riparare le cose rotte della nostra vita, che altrimenti non si aggiustano più.

 

 

Pensieri d’inverno

L’inverno è così. Stretto e veloce. Giornate corte, poca luce, una certa tendenza al ripiegamento letargico. Orizzonti troppo vicini, primi piani sgranati che non vedi i dettagli. E nemmeno il contesto.

Ma non mi dispiace. Serve anche questo. Ho accettato di buon grado il blocco della scrittura, qui e altrove. Pure i quaderni hanno tante pagine bianche.

Pochi versi, scritti a penna. Perché la poesia, in questi frangenti, è più versatile.

Ho frenato la tentazione di eliminare i tanti, troppi, file incompiuti della cartella “storie”. Un giorno tutto potrà tornare utile, e chissà, riallacciando un filo con un altro almeno una tela verrà tessuta.

L’unica storia dove periodicamente torno a lavorare è una struggente storia d’amore. Perché sempre, a un certo punto di una storia, l’amore strugge.

Il caso, la necessità, l’immaginazione

Sto pensando a come raccontare una storia che abbia a che fare con le coincidenze, gli eventi casuali, o apparentemente tali, che trasformano l’esistenza, ne cambiano il corso, e letti a ritroso disegnano una mappa necessaria, il nostro destino.

E però, lì mi arrovello, mi perdo nel loop filosofico del considerare il caso, l’accidentale verificarsi di una circostanza, un incontro, una perdita, un ritrovamento, davvero casuale o invece determinato, inevitabile, scritto nel nostro destino. La fortuna o la sfortuna, sono così svincolate dalle nostre scelte, dai nostri desideri?

Le scelte sono atti volontari, alimentati da ragione, istinto, sentimento, che al meno in parte determinano la nostra esistenza. Ma quanto incidono sull’onda anomala del caso/destino (sono forse la stessa cosa, ma letta in modo diverso?) che di volta in volta offre opportunità, oppure frappone ostacoli al nostro cammino, e al nostro vivere?

Immaginare una storia che abbia a che fare con tutto questo, per capire meglio anche la mia, di storia.

 

La bellezza e le emozioni di Torino

Non so da che parte cominciare. Davvero. La bellezza di Torino, sobria ma intensa, il museo egizio e quello del cinema alla Mole Antonelliana, le cupole avvitate di Guarini, i palazzi con le facciate di mattoni e le curve, le strade regolari, ampie, i sorprendenti cortili che improvvisamente si aprono alla vista, la galleria di Diana a Venaria, inondata di luce, il buio suggestivo della mostra Fare gli italiani alle Officine Grandi Riparazioni, una cena deliziosa con mamma e i due Pieri, a piazza Vittorio, l’aperitivo con Marco, che finalmente ho potuto guardare negli occhi, abbracciare come un vecchio amico, presentarlo a mamma come quel pazzo che una notte del 2007 si è letto tutto il mio blog e mi ha scritto una bellissima mail dicendomi che mi voleva bene. E ancora, prima della partenza il preludio di ciò che sarebbero stati questi giorni è stata la mail di Elena, una mia lettrice torinese, di cui ignoravo l’esistenza, che mi ha suggerito qualcosa da fare nella sua città.

E poi, il Salone del libro. Un posto infernale, almeno di sabato con 30 gradi senza uno straccio di aria condizionata e con la tensione di dover intervenire alla presentazione del libro di Anna Lisa, insieme a Mario Calabresi, Umberto Veronesi e Anna Masera, che ha moderato l’incontro. Ero talmente nel pallone che dopo aver riabbracciato Milva, Romina e il suo Nicola, Silvia, e incontrato per la prima volta Wolkerina e suo marito, ho mollato tutti e ho iniziato a girare in modo sconclusionato per gli stand del Lingotto, in attesa che arrivassero Andrea, Roberta e tutto il gruppo di amici e parenti di Anna Lisa da Montecatini. Erano giorni che rileggevo, cancellavo e spiegazzavo i due fogli dove mi ero preparata qualcosa da dire e ricopiato una mail e un paio di post di Anna Lisa, quelli in cui parlava del nostro incontro a Roma e della nascita di Oltreilcancro.

Poi finalmente sono arrivati anche i toscani, e non ho pensato più a quello che avrei detto, presi come eravamo tutti dal conto alla rovescia. La Sala rossa era occupata da un altro incontro con Matteo Renzi, e ce n’è voluta per farla svuotare. Nell’attesa, mentre distribuivamo materiale dell’associazione, si è presentata lei, la Elena che mi aveva scritto la mail su Torino, con un regalino per me: un piccolo calendario con i gatti che fanno yoga. Una meraviglia che mi ha lasciato senza parole.

E poi c’era Anna Maria, la signora che l’anno scorso scrisse la lettera a Calabresi segnalandogli il blog di Anna Lisa.

Finalmente siamo entrati e la sala si è riempita.

Ecco, a questo punto non so bene come raccontarvi come sono andate le cose, forse qualcosa si può cogliere dalle interviste che subito dopo ci ha fatto Anna Masera.

Dopo con Romina, Wolkerina, i loro rispettivi fidanzati/coniugi e Silvia siamo andate a mangiarci la pizza da Eatitaly, il tempio della gastronomia ed è stato bello bello, come accade sempre quando ci si ritrova tra di noi. Wolkerina ha distribuito regali, e dovreste vederla che tenerezza di donna è. Vi voglio bene, amiche.

Post scriptum: purtroppo Milva non è potuta venire a cena con noi, ma sappiate che l’associazione ha una tesoriera bravissima, che ha saputo raccontare nascita e vita di Annastaccatolisa come nessuno avrebbe saputo fare meglio.

La strada delle lucciole

C’era una strada dove le lucciole, d’estate, illuminavano la notte.

La percorrevamo per sfidare l’ignoto, e proprio al limitare del buio più fitto quel luccichio intermittente ci rassicurava, come uno sciame di spiritelli guida che accompagnano il viaggio dell’eroe.

Berni pareva il più impavido, brandiva un ramo spezzato e levigato con il coltello da cui non si separava mai.

Diana lo sfidava, superandolo e lanciandosi a rotta di collo nella boscaglia, finché anche le lucciole rinunciavano a seguirla.

Io dovevo sopportare lo scherno, sempre ultima e incerta, spaventata dal silenzio rotto dalle grida improvvise degli uccelli notturni, dai fruscii sinistri spesso provocati ad arte dai miei compagni.

Ma non avrei mai rinunciato a quelle scorribande, anche se le detestavo, e il cuore rotolava su per la gola, facendomi mancare l’aria.

Sapevo che loro non avrebbero mai rinunciato a me, perché ero proprio io, la più fifona e goffa, quella che guardava loro le spalle, proteggendoli, nonostante tutto.

Anche quando si abbandonavano ad un mai confessato amore, sapevo che il mio compito era quello di alimentarlo e preservarlo, insieme alle lucciole e alle civette.

Un giorno però mi hanno detto vai, torna a casa, non preoccuparti per noi, lo sappiamo che non hai voglia di seguirci.

Ho provato a insistere.

Ma il loro non era un invito, o un suggerimento.

Mi stavano ordinando di separare la mia strada dalla loro, di tornare indietro e lasciare che varcassero la soglia della notte senza di me.

Li ho visti sparire insieme alle lucciole, inghiottiti dal buio.

Quando sono arrivata a casa, senza dare spiegazioni per quel precoce e solitario rientro, mi sono chiusa nella stanza e ho spalancato la finestra, accorgendomi solo allora che la luna era piena e gravida di promesse.

Mentre lottavo per non cedere al sonno, che temevo come un nemico crudele, uno di quei piccoli insetti luminosi è atterrato esausto sul mio davanzale e si è spento definitivamente.

 

[Iniziato e poi concluso ispirandomi al tema “La solitudine prima di addormentarsi” del gruppo di scrittura FUL]

Recupero, caos e ricerca

Eccomi qua, dopo la pausa necessaria a far sedimentare il post precedente e ad accogliere l’inevitabile dibattito che ha suscitato. Ci saranno ancora occasioni per riparlare di prevenzione e diagnosi precoce, senza le quali non esiste una politica sanitaria efficace contro il cancro.

Adesso mi urge raccontarvi che ho finito di leggere, sottolineare, appuntare con segni vari – pallini, punti esclamativi, linee orizzontali – annotare, commentare, il libro The wounded storyteller  di Arthur W. Frank.

Da questa lettura fondamentale ho tratto l’interpretazione autentica della mia narrazione di malattia (fatta qui e nel libro Come una funambola) e una chiave preziosa per comprendere anche le storie di altre narratrici e narratori feriti dall’esperienza del cancro.

Ho imparato a riconoscere una narrazione di recupero, o del “come prima”, fondata sull’aspettativa della guarigione completa e sulla fiducia che dal viaggio nella malattia si tornerà nello stesso mondo che si era dovuto lasciare provvisoriamente, dalla narrazione caotica, o antinarrazione, caratterizzata dall’assenza di una voce capace di raccontarsi e riflettere su di sé, priva di consequenzialità temporale, di causalità, perché il narratore caotico in realtà non narra, ma prova a dire il caos in cui vive,  in un presente doloroso e frammentato,  non ricorda il passato e non immagina il futuro. Il suo non è un viaggio, ma un abbandono al naufragio. La narrazione di ricerca è invece quella che dopo l’illusione del “come prima” e la confusione del caos, riconosce che il mondo a cui si approderà dopo il naufragio non sarà più lo stesso, e la propria identità (psichica e corporea) subirà una trasformazione nel viaggio attraverso la malattia, che viene accettata e utilizzata ai fini di cambiamento che può coinvolgere non solo il narratore, ma anche gli altri. La persona malata, nella narrazione di ricerca, diventa testimone, che è un termine assai più bello di sopravvissuto.

 

 

Blogging day Rossella libera

Oggi è il bogging day per Rossella Urru, cooperante del Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei popoli rapita in Algeria, in un campo profughi Sharawi, il 23 ottobre insieme ad altri due cooperanti di origine spagnola, Ainhoa Fernandez de Rincon e Enric Gonyalons Mundobat.

Bisogna rompere il lungo silenzio che ha seguito il sequestro di questa operatrice di pace, tenere desta l’attenzione e diffondere l’appello delle Donne Viola del 18 febbraio:

Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre Rossella Urru ed altri due cooperanti spagnoli (Ainhoa Fernandez de Rincon, dell’Associazione amici del popolo saharawi, e Enric Gonyalons, dell’organizzazione spagnola Mundobat) sono stati rapiti da uomini armati, arrivati a bordo di diversi pick-up. Originaria della provincia di Oristano, Rossella Urru, 29 anni, è rappresentante della ONG Comitato Italiano Sviluppo dei Popoli (Cisp) e lavora da due anni nel campo profughi Saharawi di Rabuni, nel sud ovest dell’Algeria, coordinando un progetto finanziato dalla Comunità europea.

Rossella si occupava di rifornimenti alimentari, predisponeva la distribuzione con particolare riguardo alle necessità di donne e bambini. Rossella Urru è laureata in Cooperazione Internazionale presso la facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Ravenna, proprio con una tesi sul popolo Saharawi.

Dalla notte del sequestro non si hanno avuto notizie di Rossella Urru fino al mese di dicembre quando un gruppo dissidente dell’Aqmi (Jamat Tawhid Wal Jihad Fi Garbi Afriqqiya ) ha rivendicato il rapimento. ancora ostaggi.

Grazie a rapporti personali col popolo tuareg da parte del consigliere regionale Claudia Zuncheddu, sappiamo che Rossella è viva e che si trova in un territorio desertico quasi inaccessibile, crocevia di interessi contrastanti fra governi e movimenti, dove ovviamente assume rilevante importanza l’intreccio delle funzione di mediazione di soggetti diversi. I sequestratori mirano ad un riscatto per acquistare armi necessarie alla loro lotta per l’indipendenza. Il governo algerino, che conosce il territorio desertico a palmi, tuttavia non è favorevole alla mediazione con riscatto visto che sarebbe il destinatario di una insurrezione armata da parte del fronte del Polisario armato. In aggiunta il governo francese, spinto da mire neocolonialiste, è fortemente interessato alla liberazione forzata dei ragazzi sequestrati, mettendo così a rischio la loro incolumità.

Sono passati 117 giorni dal suo sequestro e rivendichiamo la sua liberazione, il silenzio che la circonda è assordante.

Lasciamo ai servizi ed alle ambasciate rispettivi ruoli e rispettiamo il desiderio dei familiari di mantenere basso il profilo sulle trattative tuttavia dobbiamo fare in modo che si parli di questo sequestro per spingere le nostre amministrazioni, i nostri governi e quanti più Stati possibile ad intraprendere azioni diplomatiche per la liberazione di Rossella.

Forse i suoi sequestratori fanno paura ai diplomatici.

Forse il sequestro è capitato in un momento storico in cui tutte le attenzioni dei governi sono rivolte allo spread, ai bund, alle borse, ai mercati ed alle finanze.

Forse è capitato proprio quando in Italia si è verificato un cambio traumatico di governo e si affronta una crisi economica gravissima.

Ma non si può perdere altro tempo e tutti noi dobbiamo chiedere a gran voce che le autorità competenti rivolgano la massima attenzione al problema della liberazione di Rossella.

Il nostro appello è rivolto alle organizzazioni, alle ambasciate, ai mediatori, ai servizi ed ai governi, centrale e regionale, perché utilizzino tutti i mezzi e tutte le strategie possibili per riportare Rossella a casa quanto prima.

Il fratello di Rossella dice: “le parole cedono di fronte a tanto assurdo, si sgonfiano e sembrano afone. Eppure, in questa vibrante impotenza in cui ci troviamo, sono quel poco che ci è concesso, un nonnulla che tenta di colmare un abisso e una distanza insospettati; che riescono appena a tenerci in piedi, a farci avanzare”.

Parliamo di Rossella fino a diventare afoni anche noi, parliamo di lei e di questo popolo abbandonato nel mondo che lei ha voluto aiutare nonostante i troppi rischi.

Allo stesso modo non dimentichiamo Maria Sandra Mariani, sequestrata in Algeria nel febbraio scorso, anche in questo caso, le tracce sembrano essersi perse nel deserto

Appunti su The wounded storyteller

Ho molto da leggere, per questo scrivo poco.

The wounded storyteller di Arthur W. Frank è un libro interessantissimo, me lo sto studiando, sottolineo, appunto, traduco, rifletto.

Prendete questo post come un foglio di appunti tratti da questa lettura, se siete allergici all’argomento statemi bene e passate altrove.

Il narratore ferito è la persona malata che avverte la necessità di raccontare la propria storia, di trovare una propria voce attraverso cui ricostruire la mappa esistenziale che l’esperienza della malattia stravolge.

Nell’epoca premoderna  non si sapeva cosa significasse essere malati. Il più delle volte ci si metteva a letto, circondati dalle cure di parenti e vicini, e si moriva.

Nell’epoca moderna la persona malata si rivolge al medico, che legge i dolori del corpo come sintomi e utilizza un linguaggio specialistico e spesso oscuro, redige cartelle cliniche che diventa la storia ufficiale della malattia.  Il malato diventa paziente, accetta che gli venga sottratta la propria voce personale in favore della voce dominante della medicina, e si arrende alle cure del medico per sopravvivere.

La persona malata dell’era postmoderna sente invece il bisogno di articolare l’esperienza  di cui è protagonista con la propria voce, distinta da quella della narrazione medica dominante.

Raccontando la propria storia ridisegna quella mappa che la malattia ha fatto saltare, individua nuove destinazioni, e rappresenta un percorso di vita anche per gli altri, testimoniando come sia possibile l’esperienza di ricostruzione di un sé ferito.

Raccontare storie di malattia è il tentativo di dar voce a un’esperienza che la medicina non può descrivere, anche se è grazie alla medicina se quella voce esiste, perché è grazie ai progressi della medicina se è nata la società di remissione: la società di cui fanno parte tutti coloro che stanno effettivamente bene ma che non possono mai essere considerati (e forse non riescono a sentirsi) completamente guariti, che vivono sulla scia di una patologia che muta per sempre la prospettiva di vita.

Per ora ho due certezze: faccio parte della società di remissione, e ho vissuto un’esperienza di malattia postmoderna.

 

L’attenzione

C’è la finestra aperta, che sbatte a ogni refolo di vento più energico degli altri.

La luce s’insinua tra le fessure delle persiane, schermata dalle tende, rivela sugli oggetti quelle piccole imperfezioni che ce li fanno amare e odiare di più. L’oggetto neutro è perfetto nella sua gelida inutilità.

Sto tentando un esercizio di attenzione sui pensieri, approfittando di una forzata solitudine, del prezioso silenzio di un pomeriggio estivo in città. I miei stessi colpi di tosse mi disturbano, li trattengo, li anniento con un respiro profondo.

Ne seguo uno, di pensiero, mi ci avvinghio come fosse una corda fissata alla parete che devo scalare. Le cadute non fanno male, ma una volta piombata a terra di schiena, o se va meglio di sedere, quella corda è risucchiata dal muro, e  il pensiero svanito, perduto.

Ricomincio da capo.

Chiudo la finestra, lascio fuori l’alito della vita. Aspetto che l’attenzione si stabilizzi, si fermi. Afferro un altro pensiero, più seducente degli altri, ma lascio che sia lui a trascinarmi dove meglio crede. Territori inesplorati, o la consuetudine del bagno di casa, con il rubinetto chiuso male che goccia. Indietro nel tempo, avanti nello spazio. I muscoli delle braccia tirano, ma la presa è ancora salda. Le vesciche sulle mani. La ninna nanna che cantavi a tua figlia. Nascere. Sentirsi gridare. Il silenzio ovattato dell’insonnia. Il rumore della veglia. La paura della morte. La morte del padre. La bellezza del corpo amato. Ansimare nella notte. Il desiderio appagato. E…

Un’altra caduta. Dis-attenzione.

Ci sei?

Sì, ci sono.

Che stavi facendo?

Niente. Pensavo.

Pensare non è niente.


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