Appena salita sull’autobus, stamattina, ho notato subito la giovane donna straniera, seduta, che teneva cullava un fagottino da cui spuntava un viso addormentato di neonato.
Poi non l’ho più vista, e appena si è liberato un posto, quello più vicino al conducente, mi sono seduta. Avevo appena tirato fuori la mia Moleskine per prendere qualche appunto, quando la donna si è avvicinata, e mi ha chiesto se potevo lasciarle il posto, perché doveva controllare dove scendere.
Mi sono alzata senza discutere, mentre lei mi diceva che doveva andare alla Caritas, e non sapeva quante fermate mancassero.
Le sono rimasta accanto e le ho spiegato che per Trastevere mancava ancora un po’. Le ho chiesto l’indirizzo esatto e ha tirato fuori una cartellina ordinata, piena di fogli, esami medici, documenti.
– Sono alla casa-famiglia qui vicino, ma oggi devo andare via. Dopo due mesi mandano via, – mi fa.
– Come? Col bambino? – Le chiedo allarmata.
– Sì, ogni due mesi bisogna lasciare.
– E se non trovi un altro posto?
– Eh, dormo fuori. Alla stazione. E’ già successo…
– Con il bambino? – Insisto io.
– Sì, con la bambina – precisa lei scostando un poco lo scialle con cui l’aveva avvolta.
– Quanto ha?
– Sei mesi.
– E tu da dove vieni?
Ci pensa un attimo, poi risponde – Dalla Jugoslavia. Sono qui da tre anni. Ma lei è un’assistente sociale? – mi chiede.
– No, no, perché pensi che lo sia?
Lei fa un mezzo sorriso. – Perché sei vestita bene, e parli con me.
Già, se parli con un’immigrata senza casa puoi essere solo un’assistente sociale. Mi guardo intorno e cerco di immaginare se al mio posto seduta su quell’autobus ci fosse stata un’altra persona. Una che magari non si sarebbe alzata per far sedere la giovane slava e la sua bambina. E meno che mai si sarebbe interessata alla sua storia.
– Ma il lavoro ce l’hai?
– Poco, come faccio con la bambina…
La osservo meglio, ha le mani e le unghie curate, un viso bello e affidabile, anche se da quel poco che mi racconta la sua vita deve essere stata durissima. E me lo dice: – E’ dura la vita… C’era una signora che mi aveva aiutato moltissimo, ma ora non c’è più.
– Come non c’è più?
– Non so, al telefono che ho mi hanno detto che se n’è andata.
– Ma la bambina ce l’ha un padre?
Prima mi dice no. Poi aggiunge – Il padre beve. E si droga.
– Allora è meglio che stia lontano da voi.
Ormai siamo quasi alla fermata in cui tutte e due dobbiamo scendere, lei per andare verso Trastevere, io per attraversare il ponte e andare a lezione d’inglese.
– Senti – le dico – se non ti trovano un posto sicuro dove dormire, non andare alla stazione, o chissà dove, in mezzo alla strada. E’ pericoloso, per te e per la bambina.
– Sì, lo so. Ma che devo fare…
– Non lo so, ma prova altre associazioni, comunità. Conosci altri posti? Sant’Egidio.
– Sì, sì. Ora vediamo cosa mi dicono alla Caritas.
– Buona fortuna.
– Grazie, ciao.
Correndo verso via Arenula, in ritardo, avevo il cuore stretto continuando a ripetermi che avrei dovuto fare qualcos’altro, magari accompagnarla alla Caritas, telefonare a quell’amica di mia madre che fa la volontaria, o alla mia collega della comunità di Sant’Egidio. Oppure chiederle se aveva un telefono, magari ce l’aveva, così avrei potuto sapere se aveva trovato un posto dove dormire. Mi veniva da piangere. Le solite vigliaccate che danno una lustratina alla coscienza: le hai parlato, ti sei interessata a lei, le hai dato due stupidi consigli poco impegnativi. Poi ognuna per la sua strada.
‘Fanculo. Mi viene da piangere anche adesso che ci ripenso.
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