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Anna, Michela e la libertà di raccontare

Chi mi conosce o ha letto questo blog nel corso degli anni sa che prima di Michela Murgia è stata Anna (https://widepeak.wordpress.com) a farmi capire cosa significhi non considerare il cancro un nemico da combattere e quanto fosse rischioso l’uso delle metafore belliche, soprattutto quando la malattia avanza e le prospettive di guarigione si affievoliscono, fino a scomparire del tutto.

Anche grazie a lei ho modificato il titolo del mio libro, che inizialmente doveva essere Nella battaglia, perché così avevo taggato i post del mio racconto pubblico quando ho scoperto che il cancro al seno che credevo aver debellato aveva invece metastatizzato nel fegato. 

Con il tempo, e anche grazie all’incontro con Anna, la metafora bellica ha iniziato a starmi stretta, e ne ho scelta un’altra, che incarnasse meglio la condizione di precarietà che si vive dopo una diagnosi di cancro. Mi sentivo più come una funambola che come una combattente.

Ho cercato di dare un senso a questo cambiamento di linguaggio anche raccontando le diverse esperienze di narrazione della malattia attraverso un blog in Scriverne fa bene. narrare la malattia, curarsi con un blog (Zona, 2012). In ogni storia l’uso delle parole che definiscono la malattia e le cure rappresenta una scelta più o meno ponderata, ma certamente indicativa di libertà e desiderio di infrangere i tabù legati al cancro.

Anche oggi, a distanza di quasi diciott’anni da allora, se qualcuno mi dice “tu che hai sconfitto il cancro” dico “no, non l’ho sconfitto. Meglio pensare che le cure hanno funzionato e sono guarita.”

Tutto quello che ho fatto, nei mesi successivi alla diagnosi, è stato affidarmi alla medicina accompagnandola con tutte le strategie più o meno alternative che mi sembravano utili a guarire.

E nessuno mi ha mai detto che il mio cancro e le mie metastasi non fossero curabili.

Ma quando c’è stato il sospetto che oltre al fegato le metastasi avessero attaccato anche una vertebra ero sicura che sarei morta. E per un pomeriggio intero mi sono messa a letto, a piangere, pensando a Lula che era troppo piccola per perdere sua madre.

Anche allora nessuno mi ha detto che non sarei potuta guarire. Anzi, che c’era molto da fare. Ho pure iniziato a fare pratiche di autoguarigione, convinta che la mia testa avesse il potere di sanare quel grumo di mie cellule che avevano svalvolato per qualche ragione che risiedeva dentro di me, nel mio corpo, nella mia anima.

Poi quel sospetto è stato fugato, io ho continuato a fare la pratica, ma le metastasi del fegato erano lì, andavano tolte chirurgicamente. E di nuovo chemio, e terapia ormonale. E insomma, per me le cose sono andate bene, ma ci ho messo anni e anni a sentirmi davvero guarita.

Anna, invece, quando ha visto che le sue metastasi non sparivano, anzi, si riformavano, ha capito che con il cancro, nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto conviverci, e per un tempo non troppo lungo: “ho ben chiari i confini della mia condizione e sono pronta a esplorarne i limiti ed eventualmente a superarli se la scienza me lo consentirà. Ma non posso fare finta di non aver letto queste statistiche. Questo in qualche modo significa che il pensiero della morte spesso mi è vicino. Non come uno spauracchio, non come un mostro pauroso. Semplicemente ci penso.” (Dal post del 17 febbraio 2011, cit. a p. 38 di Scriverne fa bene)

Anna è morta quasi 10 anni fa, ed è stato inevitabile pensare a lei quando a maggio ho letto l’intervista di Michela Murgia nella quale rivelava di avere un cancro metastatico e quindi una ridotta aspettativa di vita.

Ho iniziato a seguire con commozione la strada che aveva intrapreso, e tante volte avrei voluto contattarla per dirle quanto la comprendessi e considerassi importante che una donna così attiva nel dibattito pubblico avesse deciso di condividere la sua condizione di malata terminale. Non l’ho fatto, e me ne rammarico.

Ho sofferto, come certamente ha sofferto lei, quando leggevo commenti infastiditi, o veri e propri attacchi disgustosi per la libertà con cui lei aveva scelto di vivere e rendere pubblica la fase più delicata e difficile della propria esistenza.

L’hanno accusata di volersi fare pubblicità e di usare la malattia per aumentare le vendite del libro che aveva appena scritto. Che miserabili! 

C’è chi ha addirittura messo in discussione il fatto che Michela potesse affermare che il suo cancro, metastatizzato ormai ovunque, non fosse più curabile.

Qualcuno ha considerato questa consapevolezza un “cattivo esempio” per altre persone gravemente malate, invece di leggerla come l’estremo atto di libertà, uno squarcio nel buio che terrorizza.

Altri si sono indignati per la “spettacolarizzazione” di una vicenda così intima, come se ci fosse un solo modo per affrontare il cancro e la fine della propria vita: quello del silenzio, della solitudine e della vergogna, quello del nascondimento dei segni che sembrano spaventare più chi li guarda di chi li porta sul corpo o li esprime con le parole.

Io invece ho trovato confortante vedere i sorrisi luminosi di Michela, i cappelli e i turbanti colorati, gli abiti bianchi del matrimonio contratto per garantire che le proprie scelte fossero rispettate, visto che la sua famiglia queer non aveva lo stesso riconoscimento di quella tradizionale. 

È stato un conforto ascoltare e leggere le parole con cui ha spiegato il senso delle sue scelte. Parole, come ho già detto, per me non del tutto nuove. Ma pronunciate da una donna con un profilo pubblico così forte certamente hanno avuto e avranno un impatto rilevante e potranno contribuire a infrangere il muro di pregiudizi e di cattivi giudizi che ancora gravano sul cancro.

E allora grazie ad Anna prima, a Michela poi, per avermi insegnato che si può parlare della propria vita e della propria morte con la stessa, faticosissima, libertà.

Disinibita

Ero convinta, fino a ieri, che il farmaco che inibisce la produzione di estrogeni a cui era particolarmente sensibile il tipo di cancro che ho avuto e riavuto, dovesse accompagnarmi per tutta la vita, più o meno.

Avevo pure smesso di chiedere al dottor Zeta se potessi interromperlo, e ora che è andato in pensione lo avevo interpellato solo per capire se dovessi modificare qualcosa nei controlli periodici, allungare un po’ i tempi, tagliare qualche esame radiologico, quando verificare se la recente interruzione della puntura trimestrale per indurre la menopausa sia stata corretta, perché ormai dovrebbe essere arrivata per conto suo. Così mi ha proposto di vederci per parlarne. Perché, nonostante sia in pensione, Zeta resta e resterà il mio punto di riferimento, ormai anche un amico a cui chiedere consigli, a cui affidarsi.

E la grande, inattesa notizia è arrivata subito: è ora di togliere tutto, mi ha detto. Gli ultimi studi provano che inibire l’aromatasi (l’enzima che trasforma androgeni in estrogeni) per un periodo molto lungo può provocare danni cardiaci, e visto che “sono guarita” e libera dalla malattia da oltre quattordici anni, non ha senso continuare.

Non solo, a parte un’ultima eco epatica da fare a breve, poi i miei controlli saranno in realtà come quelli di tutte le donne che fanno normale prevenzione.

E gli estrogeni nuovamente liberi dovrebbero avere un effetto di benessere generale, che forse nemmeno ero più consapevole di aver ridotto in tutti questi anni. Sì, certo, colesterolo aumentato, ossa più fragili, e tutti gli annessi e connessi legati alla menopausa anticipata. Però ero stata bravina a farmene una ragione, a non rompere le scatole più di tanto.

“Devi brindare,” ha concluso.

Ho brindato, abbiamo brindato.

Complessivamente quasi vent’anni della mia vita li ho passati sotto stretto controllo medico e farmacologico. Sarà anche per questo che non mi sono sognata di mettere in discussione le indicazioni medico scientifiche sul COVID, in particolare sulla necessità di vaccinarsi. Per me è scontato affidarmi alla medicina, integrandola con tutto quello che può farmi bene senza interferire con le cure.

“Quando attraversi un ponte non vai a mettere in discussione i calcoli dell’ingegnere che l’ha costruito, no?” mi ha detto Zeta parlando dei deliri no-vax, e di quello che ha visto nel periodo più buio, quando il vaccino non c’era.

Rispettare le competenze, affidarsi con consapevolezza e anche, perché no, con fiducia.

Grazie a Zeta per me è stato facile, ma non bisogna per forza ammalarsi di brutto per capirlo.

Adesso mi sento un po’ più libera, sempre grata alla vita, a Zeta, alle buone cure, e al mio vecchio blog cui affido ancora un’altra tappa importante del mio cammino.

Campioni d’Europa

Quindici anni fa la vittoria italiana ai mondiali di calcio aveva accompagnato la conclusione positiva del periodo più difficile della mia vita, con un’ultima visita al San Giacomo dal dottor Zeta, mentre fuori, a via del Corso, risuonavano i pooo-po-po-po-po-po-po dei tifosi diretti al Circo Massimo.

Ma io, pur avendo il mio personalissimo motivo per esultare, dovevo ancora metabolizzare quei mesi durissimi, la doccia gelata della scoperta che il cancro era tornato, una paura nuova, vera, quella di non farcela, e dopo la determinazione quasi tignosa a guarire, le cure, nuove cicatrici, ancora chemio, le parole per raccontare tutto, giorno dopo giorno, fino a quella prima tappa decisiva di luglio.

Da ieri sera, dopo l’ultima decisiva parata del portierone Donnarumma penso a quella giornata di quindici anni fa, dopo la vittoria di Berlino e a quelle emozioni così contrastanti che stavo vivendo, insieme a Sten, sempre vicino, in ogni momento.

Oggi è tutto diverso, posso esultare con leggerezza per una bella vittoria che rischiara i tempi bui che abbiamo attraversato tutti, collettivamente, in questo anno e mezzo. Posso condividere come milioni di altre persone gli sfottò agli inglesi che non hanno saputo perdere quella finale, i sorrisi del capitano che si abbraccia la coppa, le cerimonie ufficiali e le folle festanti. Senza ricadute sulle mie battaglie, sulle mie parziali e relative vittorie.

Con leggerezza e sollievo.

Vent’anni di funambolismo

Sono venti.

Vent’anni dall’intervento chirurgico con cui mi è stato tolto un nodulo sospetto al seno, che poi quel giorno, sotto i ferri, si è rivelato essere cancro.

Due decenni, quasi l’intera vita di Lula, che allora aveva quasi due anni.

Vent’anni da quando abbiamo traslocato nella casa in cui ancora viviamo e che abbiamo appena – forse, ma questa è un’altra storia, uff! – finito di pagare.

In questi vent’anni sono accadute tante cose, felici e tristissime, che sarebbero potute non accadere, semplicemente perché non avrei avuto la possibilità di viverle.

Il corpo ferito e ricucito, le cure faticose, i traguardi di guarigione, Lula che cresceva e con la sua presenza luminosa mi obbligava (e mi obbliga) a restare salda su quel filo alto su cui procedo come una funambola, questo blog, il matrimonio, la ricaduta, altre cure, altra fatica, altre cicatrici, altra guarigione, altra vita. L’amore, le amicizie, la famiglia che soffre e sostiene, gli anni del coro e dello yoga, la danza, i viaggi, il lavoro non particolarmente amato, i libri, la scrittura, l’attenzione costante alle cose del mondo, purtroppo spesso motivo di rabbia e frustrazione. Raccontare, raccontare, condividere, scrivere, abbattere i tabù, incoraggiare, incontrare le tante persone che sono passate da qui, da questo blog che s’è fatto vecchio pure lui, che trascuro ma non abbandono.

Oggi un pensiero speciale lo devo al dottor Zeta, che oggi compie gli anni e ha appena iniziato a godersi una meritata pensione. “Vedrà, le porterà bene”, mi disse il giorno della prima visita, mentre compilava la mia cartella clinica e scriveva la data della quadrantectomia: 9 novembre 1999.

Mi ha portato bene, sono qui a raccontarlo, vent’anni dopo.

Sono qui, ma quanto dolore alle spalle, che fatica liberarmi dal viluppo soffocante che mi ha condizionato per tanto tempo, imparare a camminare sulla fune con più leggerezza e recuperare una dimensione esistenziale che temevo di avere irrimediabilmente perduta!

Ho dovuto accettare il fatto che affrontare il cancro non è una competenza trasmissibile e che quel che imparavo facesse parte della mia natura e del modo in cui le esperienze più profonde la stavano plasmano.

Questa consapevolezza credo sia stata per me una sconfitta, e la ragione per cui a un certo punto mi sono stancata di essere considerata una sorta di esperta in tecniche di sopravvivenza oncologica. Ho visto spegnersi davanti a me persone importantissime: la veloce e feroce malattia di mio padre prima, quella più subdola e altrettanto feroce di una delle mie più care amiche hanno rappresentato una battuta di arresto che mi ha fatto vacillare pericolosamente, anche se ormai ero diventata capace di accettare anche gli esiti più infausti.

Ci sono decine di persone che dovrei ringraziare per aver contribuito, ognuno in modo diverso, a farmi arrivare fin qui. Ciascuno di voi lo sa, lo può immaginare.

In coincidenza con il primo decennio ho scritto Come una funambola, oggi mi limito a queste poche righe, che di quel libro sono figlie devote e ribelli.

 

 

 

Ormoni in libertà vigilata

Visita fuori programma con Zeta, dopo anni di autogestione dei controlli e di incontri solo in chiave amicale, insieme ai rispettivi coniugi.

Il fatto è che dovevamo prendere una decisione importante, visto che ad aprile avevo interrotto la terapia per indurre la menopausa – a 52 anni immaginavo di non averne più bisogno – e forse avrei potuto interrompere anche la terapia ormonale blocca estrogeni con il Femara, che faccio ininterrottamente dal 2006. E invece, incredibilmente, un paio di settimane fa il ciclo è tornato e il Femara necessariamente sospeso perché sarebbe diventato inefficace.

Fatti gli esami necessari, e appurato che insomma, alcuni valori sono da menopausa, ma non tutti, abbiamo deciso che è bene non rischiare, e quindi si riparte: punture trimestrali, e pasticca di Femara ogni sera.

Non ero più abituata alle spiegazioni convincenti di Zeta accompagnate da disegnini e schemi sul verso di una busta o di un referto e mi ero dimenticata di dover fare i conti con le statistiche di rischio recidive anche a distanza di molti moltissimi anni. E con i casi concreti che confermano la necessità di non abbassare mai la guardia.

Ma avevo sperato, lo ammetto, che dopo vent’anni (o tredici, se vogliamo contare solo la fase metastatica) non avrei più dovuto tenere a bada i miei ormoni ma che si sarebbero dati una regolata per conto proprio, fiaccati dagli inibitori.

Niente proteste, niente esitazioni, zero capricci. Va bene così.

Così è stato il mio friday for future.

[Ma è stato davvero bello vedere le grandi manifestazioni di giovani in piazza per salvare il futuro del pianeta e di tutti noi.]

Biotestamento, libertà e autodeterminazione otto anni dopo Eluana

“Il testamento biologico non è un atto individuale che separa chi lo scrive da tutti gli altri, i medici, gli infermieri, i familiari. Non è la rivendicazione di un destino particolare. […] E’ un biglietto d’invito perché ognuno, durante la festa e in previsione della fine della festa, sappia apprezzare gli amori, i balli, lo spegnersi delle luci, la malinconia dei saluti.”

[Corrado Sannucci, A parte il cancro tutto bene, Milano : Mondadori, 2008, pp. 146-147]

 

Oggi, finalmente, è stata approvata la legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, meglio nota come legge sul biotestamento.

In questo blog ho affrontato in diverse occasioni la questione delle scelte sul fine vita e del testamento biologico.

In particolare, otto anni fa, il 10 febbraio 2009, il giorno dopo la morte di Eluana Englaro, scrivevo “Mi sembra chiaro che ora sia doveroso che il Parlamento voti una legge che comprenda anche nutrizione e idratazione tra quei trattamenti che ognuno di noi può decidere che gli siano interrotti nei casi in cui questi si configurino, appunto, come terapie mediche attuate senza un risultato accettabile di cura. Mai come in questo momento ho desiderato essere una parlamentare, poter essere io, in prima persona, a decidere di poter ampliare il concetto di libertà personale includendovi anche la libertà di morire, e contrastare chi vorrebbe imporre quella che sempre più mi appare come una totalitaria concezione del vivere.”

Ecco, ora questa legge esiste, e, all’articolo 1, “stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” all’articolo 5 stabilisce che sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici.” 

Ci sono voluti tanti anni per arrivare a questo risultato, anni di sofferenze inutili, di accanimenti terapeutici non richiesti, di sentenze favorevoli e leggi incostituzionali, di parole vergognose pronunciate in difesa di un’ipocrita difesa della vita, contro la libertà di scelta terapeutica, contro l’autodeterminazione delle persone.

Oggi nell’aula del Senato è stata una bella giornata di bella politica e di civiltà, come accade di rado.

Foto da La Repubblica

 

 

Tirare un sospiro di sollievo, e qualcosa in più

Sono stati ventiquattro giorni complicati. Insonne a giorni alterni, paura, brutti presentimenti, scatti di ottimismo, nervosa, nervosa, preoccupata, a tratti decisamente angosciata. Però mi sono aggrappata a quel “senza fretta” del radiologo, alla consapevolezza che l’autotrapianto di ciccia per rifare la tetta qualche falso allarme può provocarlo e ho rispolverato vecchie pratiche che in sostanza si traducono nel convincerti che tutto andrà bene, anzi, che tutto è già andato bene. Me lo sono palpato in continuazione, il noduletto scemo, cercando di confrontarlo con il cancro di diciotto anni fa. Un giorno non mi sembrava tanto diverso, sebbene più piccolo. Un altro sembrava essersi rimpicciolito.

Si è rovesciato il sale, un gatto nero ha attraversato la strada, e daje con le gocce di ignatia a gogo.

Finalmente oggi è arrivato il gran giorno. Sono andata a fare l’ago aspirato nel solito ospedale,  accompagnata da Sten con lo scooter, come ai vecchi tempi. Un’attesa molto meno lunga del previsto, e via, ennesima ecografia, il radiologo capo che è sembrato subito rilassato, scherzoso, poco convinto di dover fare ‘sto prelievo di cellule. Complimenti alla tetta ricostruita, e già, sarà colpa dei colleghi plastici e del lipofilling, ma no, non sarà niente. Però l’ago alla fine lo conficca, le cellule vengono prelevate e messe nel vetrino. Tutto dura pochissimo, e dopo, mentre stesa immobile sul lettino non capisco bene che devo fare, arriva la conferma, ufficiosa, che posso andare tranquilla, e aspettare senza preoccupazione la risposta ufficiale che arriverà tra una settimana.

Ero molto agitata, ho detto al dottor M., il radiologo capo.

Pure io, fa lui. Ma non capivo se scherzava, visto il clima di cazzeggio che c’era già da un po’.

Ho dato molto all’oncologia italiana, proseguo. Adesso però basta.

Mi ha sorriso, come ho immaginato mi avrebbero sorriso lui e l’infermiera che mi conosce bene, quando la notte scorsa mi sono convinta che non avevo niente da temere.

Allora mi posso ubriacare?

No, non lo dica a me, sono astemio.

Va bene. Sono semplicemente felice, e ho voglia di festeggiare.

Non sono geneticamente modificata

Oggi ho saputo che non sono geneticamente modificata. O meglio, che non sono portatrice della mutazione BRCA1 e BRCA2. La buona notizia è arrivata con parecchio anticipo, direttamente dalla segretaria del medico genetista oncologo che dopo una lunga intervista aveva deciso che sì, era il caso di fare il test, sebbene con una bassa probabilità di risultare positiva.

Ero appena tornata dal funerale di uno zio, l’ultimo dei tre fratelli di mia madre rimasto vivo, e poco prima avevo polemizzato su Facebook per l’ennesima inutile catena che dovrebbe avere lo scopo di sensibilizzare alla prevenzione per il tumore al seno. La telefonata della segreteria del genetista lì per lì mi aveva allarmata: “il dottore vuole vederla per darle la relazione sul test genetico che ha fatto.” Ma subito ha aggiunto che non dovevo preoccuparmi, tutto negativo (ovvero, niente mutazioni.)

È stata una liberazione, un sollievo. Non tanto per me, ovviamente, ma per Lula, che avrebbe avuto un’alta possibilità di avere la stessa mutazione, visto che si trasmette in modo dominante nella linea materna. Certo, questo non la rende immune, e il fardello della familiarità se lo dovrà portare dietro, visto che mi sono ammalata da giovane, e senza mutazioni genetiche e mia madre è stata colpita dalla stessa malattia due volte. Ma avere il BRCA1 mutato avrebbe significato un rischio aumentato del 57 % di sviluppare il cancro al seno, con tutte le conseguenze che conosciamo dopo “il caso Jolie”, in particolare la difficilissima decisione da prendere sulla mastectomia preventiva.

E così, dopo questo mese e mezzo di trepidazione, posso riprendere fiato, e proseguire il mio cammino di donna guarita.

Mutazioni genetiche?

Sono dovuta passare in ospedale dal dottor Zeta per il rinnovo annuale del piano terapeutico per l’Enantone, il farmaco che continua da dieci anni a tenermi in menopausa, condizione essenziale per l’efficacia del Femara, la terapia ormonale oncologica che probabilmente continuerò a vita. Zeta era impegnato in un convegno sulla consulenza genetica oncologica, così  nell’attesa ho seguito un paio di relazioni sul tema. Mi è salita una certa ansia, non tanto per me, ma per Lula, che dovrò mettere nelle condizioni di decidere il meglio per la propria salute e per abbattere il rischio di incorrere in un tumore al seno, data la pesantissima familiarità. Ai tempi del “caso Angelina Jolie” ero convinta che fosse assurda la sua decisione. Anche tra gli oncologi c’era molta cautela. Più tardi ho capito che però ci sarebbero potuti essere altri vantaggi dalla scoperta di avere delle mutazioni genetiche: cure specifiche, vaccini, insomma qualcosa di buono senza dover necessariamente privarsi di parti del proprio corpo.

Invece ascoltavo quei dati, l’incidenza altissima di rischio per chi ha i geni BRCA 1 e BRCA 2 mutati, l’ereditarietà, la mastectomia preventiva, l’ovariectomia… L’ansia è aumentata, mi sono alzata di scatto pronta ad andar via senza il mio piano terapeutico, ma ho incontrato il dottor Esse, collega di Zeta fin dai tempi del San Giacomo, siamo saliti al reparto e ci ha pensato lui. Nel frattempo abbiamo parlato anche di questi benedetti test, ha capito la mia contrarietà ad affrontare ora una questione così delicata, che certamente mi metterebbe agitazione, in una fase in cui sono uscita completamente dal cancrocentrismo che ha contraddistinto molti anni della mia vita.

E invece, quando già ero andata via, Zeta mi ha telefonato per dirmi che in effetti sarebbe il caso di affrontare la questione. Ho nicchiato. La mattina seguente mi ha richiamato, per dirmi che almeno la visita di consulenza genetica avrei potuto farla.

“Ma non posso aspettare?” Gli ho chiesto titubante. “Lula è ancora abbastanza giovane…”

“Non dovresti farlo solo per lei! Se dovessi avere la mutazione del BRCA ci possono essere diverse cose da fare anche per te.”

“No, guarda che ho faticato tanto per riavere il mio seno intero, quindi non ho nessuna intenzione di farmi togliere tutto per precauzione.”

“Lo so, ma insomma intanto fare una visita che ti costa? Il dottor Gi è molto bravo, ti prendo io l’appuntamento.”

E così tra qualche giorno andrò a fare questa benedetta visita. E non mi va per niente. Ma per senso di responsabilità capisco che devo farla. Però non credo che farò subito il test. Non voglio sapere ora se ho i geni mutati. E se poi sono mutati? Dovrò pensare che per la terza volta potrebbe tornarmi il cancro? Dopo tutti questi anni? E Lula quando dovrà farlo? Non è meglio aspettare il momento giusto anche per lei?

Queste domande mi stanno assillando, e sì, certo, la visita servirà a darmi delle risposte.

Avrei voluto un altro po’ di tregua. Che palle!

Di libertà di cura, tra psiche e chemio

Di recente due giovani donne sono morte di cancro (leucemia e carcinoma del seno) per aver rifiutato di essere sottoposte alla chemioterapia, secondo le scellerate teorie di Hamer, medico tedesco radiato dall’ordine e più volte arrestato per i reati di cattiva pratica medica, esercizio abusivo di professione medica, omissione di soccorso, calunnia e frode.

Molti anni fa, in questo blog, qualcuno mi scrisse tentando di convincermi che dovevo fare come Eleonora Brigliadori, guarita dal cancro seguendo le teorie di Hamer, perché la chemio mi avrebbe uccisa. Non trovo più quel commento, immagino di averlo cancellato preoccupata di diffondere anche solo indirettamente quelle teorie scellerate.

Anche io, come l’ex dottor Hamer sono convinta che un trauma psichico possa essere all’origine di quasi tutti i tipo di cancro, e chi mi conosce e mi legge sa che ho anche tentato, dieci anni fa, quando il cancro è tornato, di percorrere altre strade. Ho raccontato tutto in parte qui e in parte nel libro Come una funambola. E sono convinta che quelle strade mi hanno aiutata a guarire meglio, ma certamente non sono state sufficienti e ho dovuto ricorrere alla chirurgia e a massicce dosi di chemioterapia, nonché alla terapia ormonale che non ho mai interrotto.

La chemioterapia – fatta due volte, nel 2000 e nel 2006 – mi ha curato, e gli effetti collaterali ormai sono sopportabilissimi, soprattutto se ci si attrezza anche con rimedi complementari di cui anche i medici spesso riconoscono l’efficacia.

Certo, in alcuni casi somministrare i chemioterapici può aggravare inutilmente le condizioni generali della persona malata, soprattutto se lo stato della malattia è così avanzato da essere considerato irreversibile. In questi casi comprendo la libertà di scegliere di non curarsi, anche se vi assicuro che quando si ha il cancro in corpo è molto più facile desiderare essere curati, in qualsiasi modo, a qualunque costo.

Ma le due donne di cui si parla in questi giorni si sarebbero potute salvare proprio grazie alla chemio.

Perché se è vero che una sofferenza della psiche è all’origine dell’insorgere della malattia, non è così automatico il processo inverso, come disse giustamente il mio psicoterapeuta.

Curare quei traumi è sacrosanto, soprattutto per non ammalarsi più, ma demonizzare dei farmaci che salvano ogni giorno delle vite è da sciagurati.

Ancora più sciagurati sono quelli che propugnano cure miracolose sulla pelle degli altri, magari solo per sentito dire.


Come una funambola

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