Dopo aver accertato che le tette stanno bene, e pure tutti i valori ematici, come la coppia di marker tumorali, ieri ho fatto la Tac, per la prima volta dalla fine del 2005 a distanza di un anno e non di 4-6 mesi.
L’infermiera che mi ha messo l’ago per il liquido di contrasto (e prima di lei lo specializzando che ha compilato la scheda e mi ha fatto firmare il consenso informato) mi ha chiesto per la – tredicesima? – volta nella mia vita perché facessi una Tac. E mentre racconto la mia storia un po’ mi annoio, e un altro po’ mi dico “cazzo, parlo di un’epatectomia come fosse appendicite.”
Aspettando di essere chiamata, ho visto entrare e uscire persone di cui ho immaginato il destino, ho ascoltato i soliti discorsi che si sentono in queste circostanze, ho osservato gli sguardi di chi se ne stava in silenzio.
Dopo, mentre ero sdraiata sul lettino e la voce registrata mi ripeteva le solite istruzioni ho chiuso gli occhi, ho inspirato, trattenuto il respiro, respirato normalmente come mi veniva indicato. Dovevo aver messo in una posizione sbagliata le mani sulla testa, il polso con l’ago sbatteva, mi faceva male. Ma stoicamente ho resistito, riuscendo pure a dare una ripassata mentale ai chakras, una meditazione veloce ma intensa, e quando finalmente ho potuto mettere le braccia lungo il corpo, perché era il momento del controllo della testolina, mi sono agitata per la richiesta di rimetterle sopra alla testa. Uff, la macchina è ripartita, insieme alla voce che mi ordinava di trattenere il respiro, respirare, di non muovermi. Stavano insistendo ancora sulle altre parti del corpo. Finalmente è arrivato il momento della testa. E la voce del tecnico: “abbiamo finito.”
Il caro dottor Esse si è affacciato e mi ha detto che a un primo sguardo va tutto bene. L’ho guardato storta perché non mi piaceva quella risposta. Dovevo scappare all’aeroporto a riprendere Lula in arrivo da Dublino, avevo una fretta del diavolo, ma non me ne andavo dalla sala Tac. “C’è niente di cui mi devo preoccupare?” gli ho chiesto. “No, assolutamente. Tranquilla.” “Sicuro sicuro?” “Ma sì, quando ti serve il referto?” “Bah, prima o poi dovrò portarlo a Zeta.” “Allora lunedì, va bene?”. “Va bene.” Insomma, non l’ho ancora letto nero su bianco ma sono certa che pure frattaglie, polmoni e cervello stanno alla grande, mi sento sempre di più in zona sicurezza, tanto che forse nemmeno intraprenderò la pratica per il rinnovo per l’invalidità civile, scaduta a febbraio, perché sicuramente mi verrebbe abbassata la percentuale a un punto tale che non mi servirebbe a niente. Meglio evitare le rogne burocratiche dell’Inps.
E allora bene così.
Aspettando di togliere l’ago sono andata a ritirare la Moc fatta la settimana scorsa. Le ossa continuano a reggere, un poco di osteopenia accettabile, magari devo ricominciare a prendere regolarmente l’equiseto. Bere più latte, ma attenzione ai formaggi, per il colesterolo che sale per colpa del Femara.
Sei anni fa ero felice e un po’ stonata, mentre i clacson strombazzavano per la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. Oggi pure mi sento un po’ stonata, ma altrettanto felice perché sono passati sei anni. Sei anni, come si dice in linguaggio medico, libera dalla malattia.
Vorrei che pure la mia testa lo fosse un po’ di più. Ho bisogno di leggerezza, di proiezioni verso il futuro. E vorrei smettere di misurare il tempo della mia vita così, di controllo in controllo, come se ci fosse sempre un ostacolo a scandire queste piccole porzioni di esistenza.
Mille volte ho pensato che questo blog si fosse esaurito. Ma quando riesce ad accogliere queste mie riflessioni mi accorgo di quanto ancora abbia bisogno di lui. Il mio blogghetto. Il magazzino della mia anima.
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