Apeirogon

Ho impiegato molto tempo a leggere Apeirogon di Colum McCann in lingua originale. Anche per la fatica e la frustrazione di leggerlo in questo periodo, mentre Gaza e la sua popolazione civile veniva bombardata da Israele in risposta alla strage terrorista di Hamas e al rapimento di oltre cento israeliani il 7 settembre 2023.

Apeirogon. Un poligono dai lati infinitamente numerabili.

1001 paragrafi (come i 1001 capitoli delle Mille e una notte) per raccontare le infinite sfaccettature della tragedia dell’occupazione israeliana della Palestina attraverso la storia – vera – di due padri, il palestinese Bassam e l’israeliano Rami, uniti nel dolore e nel tentativo di costruire un percorso di riconciliazione tra i due popoli, raccontando in giro per il mondo la storia di Smadar, saltata in aria a tredici anni per un attentato suicida palestinese in un centro commerciale nel 1997, e di Abir, dieci anni, colpita alla nuca da un proiettile di gomma sparato da un poliziotto di frontiera mentre usciva da un negozio per comprare una caramella a forma di braccialetto.

Bassam e Rami hanno rifiutato di trasformare quel dolore immane in altra violenza, convinti che la vendetta generi solo altro dolore, che la violenza non possa che moltiplicare violenza, in una spirale, iniziata ancora prima della nascita dello Stato di Israele, che deve essere interrotta.

Ma se Israele non metterà fine all’occupazione dei territori palestinesi non ci sarà via d’uscita, sostengono Bassam e Rami: ci saranno altre Smadar, altre Abir, altre morti, vendette, rappresaglie, altre guerre, il disconoscimento dell’umanità dell’altro, la spirale dell’odio e della violenza avvitata inesorabilmente, senza fine.

Bassam spiega come l’occupazione condizioni ogni momento della vita: ti priva di ogni prospettiva, non puoi camminare, guidare, andare al mercato, alla spiaggia, senza essere fermato, t’impedisce pure di raccogliere un’oliva dal tuo albero perché è dall’altra parte del filo spinato. Non puoi nemmeno guardare il cielo. “They own the air above and the ground below.” Hai bisogno di un permesso per seminare la tua terra. A sette anni puoi essere prelevato da casa tua e interrogato. Provate a immaginare, proviamo a immaginare.

“I know that it will not be over until we talk each other,” dice Rami, che con sua moglie ritengono Netanyahu il vero responsabile della morte di Smadar.

Netanyahu, i coloni, l’occupazione, i muri. Vendette, rappresaglie, terrore.

Non finirà finché non ci parleremo. Non ci riconosceremo nell’unica strada possibile per vivere in pace.

Finché non verranno abbattuti i muri e spezzata la spirale catastrofica che oggi, ancora più di ieri, conferma la necessità di quella strada.

L’anno che verrà

Fatico a formulare degli auguri scintillanti per l’anno nuovo.

Così brutto questo che si sta chiudendo da non lasciare molto spazio all’immaginazione positiva, ai buoni propositi o, semplicemente, alla speranza.

Guerre proseguite, tragedie rinnovate, infelicità diffuse. Il mondo fuori è un disastro.

Quello personale è stato pieno di preoccupazioni, grandi e piccole, alcune piuttosto comuni, che fanno parte della vita di tutti. Ma ho patito molto la difficoltà che avevo, che ho, a fare progetti per il mio futuro, come se “mi fossi stancata” di farlo. Come se, invece dei sogni, bisognasse occuparsi della realtà che reclama sempre molte attenzioni, che risucchia energie lasciandoci in balia di un presente che arranca.

Per concludere degnamente il 2023 io e Sten, come tanti in questo periodo, ci siamo presi il nostro secondo Covid. Freschi di vaccinazione, evidentemente troppo freschi, prima lui, poi io, dopo un inutile tentativo di sfuggire al contagio separandoci in casa. La sottile linea rosa del test casalingo mi costringerà probabilmente a stare a casa, core a core, e aspettare così l’arrivo del 2024.

Comunque vada questo passaggio dal vecchio al nuovo, insomma, quello che auguro al mondo è di trovare pace, e a noi di continuare a sognare, ridere, danzare.

E a Lula, sì, per lei di auguri scintillanti ne ho tanti. Ma lei lo sa.

Uomini che uccidono le donne

Ancora una volta succede questo, con uno schema identico e micidiale: un uomo uccide una donna da cui è stato lasciato perché non accetta la sua libertà.

L’omicidio è l’esito estremo, prima si passa per l’inganno di un amore totale, ammorbato dalla smania di controllo, da una gelosia furiosa che tenta, qualche volta purtroppo riuscendoci, di isolare la “preda” da ogni contesto di amicizia, solidarietà, affetti, divertimenti, interessi che possano minare la bolla malata di presunto amore. Poi si passa al gesto violento, che può essere anche uno, uno soltanto. Perché si percepisce un tentativo di allontanamento, un’insofferenza al controllo, o una decisa volontà di interrompere il rapporto.

Credo che ognuna di noi abbia vissuto o conosciuto almeno indirettamente storie così, senza arrivare all’omicidio. Ma chi può dirlo quante donne hanno rischiato e rischiano di morire ogni giorno? Per uccidere può bastare un colpo solo, ben assestato. E la violenza è sempre e comunque tentato omicidio. Non per la legge, certo. È il tentativo di uccidere la libertà, la negazione di ogni possibile forma di amore.

La cosa più difficile è sradicare il senso di colpa, interrompere la spirale, quel precipizio verso la trappola da cui non c’è verso di uscire vive.

Non è colpa tua, non è colpa tua, l’amore non c’entra niente con il possesso, con il ricatto, le lusinghe minacciose.

Siamo stanche di dover imparare e insegnare che bisogna temere quei segnali, analizzarli come entomologhe per distinguere la gelosia dall’ossessione, il dolore per una separazione da un progetto omicida, l’elaborazione del distacco dal tentativo di annullare una libera scelta.

L’amore deve essere il luogo della fiducia e del rispetto, un tempo presente senza ipoteche sul futuro, un presente di progetti che s’intrecciano nella libertà e nel desiderio. Gli amori possono finire, o interrompersi per poi ricominciare. Le pene amorose hanno alimentato splendide opere d’arte e di scrittura.

Imparate a sublimare così la frustrazione di essere respinti. Imparate a coltivare il rimpianto e la delusione per far nascere sentimenti nuovi.

Sì, lottiamo perché l’educazione sentimentale e sessuale sia praticata in ogni fase della vita delle bambine e dei bambine, delle ragazze e dei ragazzi, nelle famiglie e nelle scuole.

Ma smettetela di uccidere le donne che non potete possedere e non sapete amare.

È una mattanza che deve finire.

Sten

Era una fredda sera di novembre, il 16, del 1993.

Trent’anni fa.

Qualche giorno prima ti avevo chiamato per farti gli auguri di compleanno, non ricordavo il giorno esatto ma sapevo che doveva essere passato da poco.

Ero single da un paio d’anni, e tu avevi da poco rotto con l’amica che ci aveva fatti conoscere. Capitava spesso di incontrarci in metro, abitavamo vicini, e le chiacchiere veloci che riuscivamo a fare erano sempre molto affettuose.

Ho iniziato a fantasticare su di noi. Ma non ero il tuo tipo, mi dicevo.

All’epoca non esistevano i cellulari ma le segreterie telefoniche. La tua era rotta, tagliò buona parte del messaggio che ti avevo lasciato, la parte finale con il numero di telefono.

Però un giorno mi hai richiamata, e abbiamo deciso di vederci. Io ho proposto un cinema, hai rilanciato invitandomi a cena a casa tua.

La “collezione di farfalle” erano le diapositive di un viaggio in Madagascar da farmi vedere. Ma prima un buon risotto al barolo e le confidenze sui nostri cuori in inverno, il tuo più indurito del mio.

Poi è iniziato tutto, ed è stato così bello che continua ancora.

Quanta vita insieme!

Anna, Michela e la libertà di raccontare

Chi mi conosce o ha letto questo blog nel corso degli anni sa che prima di Michela Murgia è stata Anna (https://widepeak.wordpress.com) a farmi capire cosa significhi non considerare il cancro un nemico da combattere e quanto fosse rischioso l’uso delle metafore belliche, soprattutto quando la malattia avanza e le prospettive di guarigione si affievoliscono, fino a scomparire del tutto.

Anche grazie a lei ho modificato il titolo del mio libro, che inizialmente doveva essere Nella battaglia, perché così avevo taggato i post del mio racconto pubblico quando ho scoperto che il cancro al seno che credevo aver debellato aveva invece metastatizzato nel fegato. 

Con il tempo, e anche grazie all’incontro con Anna, la metafora bellica ha iniziato a starmi stretta, e ne ho scelta un’altra, che incarnasse meglio la condizione di precarietà che si vive dopo una diagnosi di cancro. Mi sentivo più come una funambola che come una combattente.

Ho cercato di dare un senso a questo cambiamento di linguaggio anche raccontando le diverse esperienze di narrazione della malattia attraverso un blog in Scriverne fa bene. narrare la malattia, curarsi con un blog (Zona, 2012). In ogni storia l’uso delle parole che definiscono la malattia e le cure rappresenta una scelta più o meno ponderata, ma certamente indicativa di libertà e desiderio di infrangere i tabù legati al cancro.

Anche oggi, a distanza di quasi diciott’anni da allora, se qualcuno mi dice “tu che hai sconfitto il cancro” dico “no, non l’ho sconfitto. Meglio pensare che le cure hanno funzionato e sono guarita.”

Tutto quello che ho fatto, nei mesi successivi alla diagnosi, è stato affidarmi alla medicina accompagnandola con tutte le strategie più o meno alternative che mi sembravano utili a guarire.

E nessuno mi ha mai detto che il mio cancro e le mie metastasi non fossero curabili.

Ma quando c’è stato il sospetto che oltre al fegato le metastasi avessero attaccato anche una vertebra ero sicura che sarei morta. E per un pomeriggio intero mi sono messa a letto, a piangere, pensando a Lula che era troppo piccola per perdere sua madre.

Anche allora nessuno mi ha detto che non sarei potuta guarire. Anzi, che c’era molto da fare. Ho pure iniziato a fare pratiche di autoguarigione, convinta che la mia testa avesse il potere di sanare quel grumo di mie cellule che avevano svalvolato per qualche ragione che risiedeva dentro di me, nel mio corpo, nella mia anima.

Poi quel sospetto è stato fugato, io ho continuato a fare la pratica, ma le metastasi del fegato erano lì, andavano tolte chirurgicamente. E di nuovo chemio, e terapia ormonale. E insomma, per me le cose sono andate bene, ma ci ho messo anni e anni a sentirmi davvero guarita.

Anna, invece, quando ha visto che le sue metastasi non sparivano, anzi, si riformavano, ha capito che con il cancro, nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto conviverci, e per un tempo non troppo lungo: “ho ben chiari i confini della mia condizione e sono pronta a esplorarne i limiti ed eventualmente a superarli se la scienza me lo consentirà. Ma non posso fare finta di non aver letto queste statistiche. Questo in qualche modo significa che il pensiero della morte spesso mi è vicino. Non come uno spauracchio, non come un mostro pauroso. Semplicemente ci penso.” (Dal post del 17 febbraio 2011, cit. a p. 38 di Scriverne fa bene)

Anna è morta quasi 10 anni fa, ed è stato inevitabile pensare a lei quando a maggio ho letto l’intervista di Michela Murgia nella quale rivelava di avere un cancro metastatico e quindi una ridotta aspettativa di vita.

Ho iniziato a seguire con commozione la strada che aveva intrapreso, e tante volte avrei voluto contattarla per dirle quanto la comprendessi e considerassi importante che una donna così attiva nel dibattito pubblico avesse deciso di condividere la sua condizione di malata terminale. Non l’ho fatto, e me ne rammarico.

Ho sofferto, come certamente ha sofferto lei, quando leggevo commenti infastiditi, o veri e propri attacchi disgustosi per la libertà con cui lei aveva scelto di vivere e rendere pubblica la fase più delicata e difficile della propria esistenza.

L’hanno accusata di volersi fare pubblicità e di usare la malattia per aumentare le vendite del libro che aveva appena scritto. Che miserabili! 

C’è chi ha addirittura messo in discussione il fatto che Michela potesse affermare che il suo cancro, metastatizzato ormai ovunque, non fosse più curabile.

Qualcuno ha considerato questa consapevolezza un “cattivo esempio” per altre persone gravemente malate, invece di leggerla come l’estremo atto di libertà, uno squarcio nel buio che terrorizza.

Altri si sono indignati per la “spettacolarizzazione” di una vicenda così intima, come se ci fosse un solo modo per affrontare il cancro e la fine della propria vita: quello del silenzio, della solitudine e della vergogna, quello del nascondimento dei segni che sembrano spaventare più chi li guarda di chi li porta sul corpo o li esprime con le parole.

Io invece ho trovato confortante vedere i sorrisi luminosi di Michela, i cappelli e i turbanti colorati, gli abiti bianchi del matrimonio contratto per garantire che le proprie scelte fossero rispettate, visto che la sua famiglia queer non aveva lo stesso riconoscimento di quella tradizionale. 

È stato un conforto ascoltare e leggere le parole con cui ha spiegato il senso delle sue scelte. Parole, come ho già detto, per me non del tutto nuove. Ma pronunciate da una donna con un profilo pubblico così forte certamente hanno avuto e avranno un impatto rilevante e potranno contribuire a infrangere il muro di pregiudizi e di cattivi giudizi che ancora gravano sul cancro.

E allora grazie ad Anna prima, a Michela poi, per avermi insegnato che si può parlare della propria vita e della propria morte con la stessa, faticosissima, libertà.

Come sto?

Non bene, grazie.

Per essere precisa: fisicamente bene, meno per quanto riguarda psiche, anima, emozioni.

È un lungo periodo in cui mi sembra di galleggiare, trascinata dalla corrente che va dove deve andare, indipendentemente dalla mia volontà e dai miei desideri.

È un lungo periodo di accompagnamento alla conclusione di una lunghissima vita, con il suo carico di dolore, attese, speranza, ricordi, paura del distacco e desiderio di assecondare le scelte espresse prima di non riuscire più a farlo chiaramente. Pena per uno sguardo perso chissà dove, per l’aggrottarsi della fronte nell’assopimento, per le parole sigillate dall’immobilità, o appena mormorate in dichiarazioni di amore e di stanchezza.

Ripenso ad altri commiati, più o meno espliciti e attesi. A quello da mio padre, soprattutto. Allo sgomento che sempre attanaglia il cuore quando si scorge quell’orizzonte opaco, quell’aldilà sconosciuto che chiama e atterrisce.

E ancora, di questo periodo non felice, detesto i miei scatti, la mia insofferenza, e tutti quei rimpianti, un rimestare tossico tra le scelte compiute in passato che potrebbe invece diventare fertile se riuscissi a dargli una forma, uno sbocco creativo, o quanto meno esistenziale.

Questo tempo che corre e consuma non riesco proprio a viverlo come immaginavo che avrei fatto dopo l’ultima mia guarigione, e ancor più dopo la morte della mia cara amica: ogni giorno come fosse l’ultimo, ogni istante da assaporare, cogli l’attimo – carpe diem – sogna, progetta, realizza, sii felice.

P.S. Un breve soggiorno madrileno mi ha fatto ricordare quanto fanno bene, insieme all’amore in tutte le sue forme, i viaggi e l’amicizia. Olè.

Di poesia, di amicizia e di parole riparatorie

Marta, una delle mie amiche storiche, ha pubblicato un libro di poesie molto belle, che ha presentato qualche giorno fa in una libreria romana.

Se non fossimo state amiche non avrei conosciuto Sten, visto che stavano insieme quando io e lei abbiamo iniziato a frequentarci ritrovandoci a seguire lo stesso corso universitario, Estetica per la precisione, dopo gli anni di militanza politica che però non ci aveva mai troppo avvicinate.

La Critica del giudizio di Kant e le preziose lezioni del professor Garroni sono state galeotte per la nostra amicizia, nutrita da un ritiro di studio prima dell’esame e poi un pezzo di vacanza a Creta, lei con Sten ed io con il mio fidanzato dell’epoca.

Quando poi ci siamo assestate lei con il suo futuro marito e poco dopo io con il suo ex, siamo riuscite a tenere salda la nostra amicizia, diventata in breve tempo anche quella delle nostre famigliette che si stavano costruendo.

La prima figlia di Marta è nata un anno prima di Lula, la seconda sei mesi dopo, e così siamo state per un periodo tutte e due incinte, lei però con un’esperienza in più.

Marta era l’unica amica che avevo ad avere già una figlia: dopo avermi dato tanti consigli prima della nascita di Lula, è stata preziosa anche dopo, quando stravolta dalla depressione post-partum la chiamavo alle 7 del mattino per chiederle le cose più stravaganti. Lei si precipitava da me, insieme alla sua piccola Alice e al pancione di Chiara che cresceva, nonostante la fatica della gravidanza. Mi obbligava a uscire di casa, all’epoca abitavamo a due passi da Villa Pamphili, per andare a passeggiare tutte insieme al parco.

Dopo pochi mesi non doveva più obbligarmi, e la villa era la nostra seconda casa, con le bimbe che erano diventate tre piccole amiche, e anno dopo anno crescevano insieme.

Anche qui, in questo blog, nei momenti difficili ogni tanto ho scritto della sua presenza, magari per distrarre Lula mentre dovevo fare una visita importante, o per aiutarmi a renderle la vita più serena.

Quando Marta ha avuto una terza figlia le altre erano ormai erano grandi, così i ritmi di vita, e pure la distanza (già da tempo non abitavamo più vicine), hanno reso più complicata la consuetudine degli incontri a cui eravamo abituate.

Cambiamenti, anche radicali, che avrebbero richiesto più vicinanza e tempi lunghi, lenti, accoglienti.

Ma nonostante tutto sapevo, sapevamo, che certi legami e certe amicizie possono trasformarsi, aggrovigliarsi un po’, o tendersi fino a farsi sottili filamenti che però resistono. Resistono.

Così, mesi fa Marta, proprio dopo una passeggiata alla nostra villa del cuore, insieme a Sten e al suo nuovo compagno, mi ha detto che aveva scritto delle poesie e un editore gliele avrebbe pubblicate. Era felice, come non la vedevo da tempo.

Poi un giorno è venuta a casa a portarci una copia di Innesti, dedicata a me e a Sten, e finalmente, tutto d’un fiato, ho letto i suoi versi.

Anche per lei la parola, la scrittura, ha rappresentato (rappresenta, credo) anche un mezzo per riparare l’infranto, ricucire ferite, imparare a dare un senso a quello che ci accade e che accade attorno a noi.

Versi illuminanti e densi, sostenuti da una scrittura lavorata con cura.

Visto che questo blog è nato come magazzino dell’anima voglio citare questi:

Verso sera

Ecco. Infine, tutto si ricompone,

la luce con l’ombra,

il silenzio con l’ascolto.

Dall’ora dorata all’ultimo orizzonte

lo sguardo lava ogni pensiero,

tutto converge.

Si rincasa nell’anima

sul ciglio del mondo.

(Marta Paloscia, da Innesti, Nolica, 2023)

Cutro

Il mare nostro, come il nome dato alla missione che doveva interrompere la tragedia dei naufragi, ed è durata solo un anno, continua a restituire cadaveri sulle spiagge della Calabria.

Bambini, donne e uomini, famiglie intere.

Li avevano avvistati, ma sembravano galleggiare.

E poi, tutti obbligati a stare ammassati sotto coperta, nemmeno si vedevano. Sì, certo, lo sapevamo che erano tanti.

Ma non hanno chiesto aiuto.

Era un’operazione di polizia.

Il mare era troppo mosso per le motovedette della Guardia di finanza.

Sono tornati indietro.

Pazienza, li aspetteremo a terra, così arrestiamo i cattivi scafisti.

E invece sono arrivati i cadaveri.

I cadaveri dei bambini, delle donne e degli uomini.

Non si mettono in pericolo i propri figli affrontando un viaggio così, ha detto il ministro.

Volevo dire, si giustifica poi, che dovevano aspettarci, saremmo andati a prenderli noi.

Ipocriti criminali.

Fate i decreti contro le ONG che impediscono proprio questo. Le obbligate a impiegare giornate di navigazione in più.

Ma questa non era una rotta battuta dalle ONG…

Appunto, non c’erano nemmeno loro a poter salvare quelle povere persone.

Lo dovevate fare voi.

Li avevate visti.

Sapevate che le condizioni del mare sarebbero peggiorate.

Potevate salvarli.

Dovevate salvarli.

Il lato oscuro della maternità

Quando sento di quello che può accadere quando una donna, appena diventata madre, viene lasciata sola dopo un parto traumatico (sì, spiace dirlo, ma il parto può essere un trauma) o durante un post-partum che per svariate ragioni, chimiche, psicologiche, culturali, può trasformarsi in depressione, ritorno inevitabilmente alla mia esperienza.

Gravidanza meravigliosa, preparazione al parto tutta incentrata su training autogeno, yoga, respirazione, capacità di controllare le contrazioni, una sorta di allenamento a scodellare neonati, come se la questione fosse tutta lì, tirar fuori l’essere che hai tenuto nella pancia per nove mesi e poi fare di tutto per allattarlo al seno, il prima possibile, il più a lungo possibile.

Ma no, l’epidurale non serve, quella meravigliosa esperienza deve essere vissuta naturalmente, come fanno gli animali, come le donne hanno sempre fatto. Partorirai con dolore. Ma no, il dolore si controlla, soprattutto se ti sei allenata bene. E poi, che succede se non senti le contrazioni? Se non collabori? No no, meglio lasciar perdere l’epidurale.

Primo grave, gravissimo errore. Avrei potuto avere un parto senza dolore, e senza quel dolore che non è più inevitabile, anche quello dell’anima forse non sarebbe arrivato.

Poi arriva il momento fatidico, le contrazioni che iniziano di notte, due giorni allo scadere del termine. Io e Sten contiamo gli intervalli e decidiamo di andare in ospedale.

No, troppo presto, tornate a casa, prendi un Buscopan e cerca di riposare.

Macchè, tutta la notte sveglia, e quando la mattina torniamo in ospedale devo impuntarmi per farmi ricoverare.

Ho una stanza tutta per me, con le foto di Anna Geddes, e all’ora di pranzo decidono di darmi un po’ di ossitocina, si rompono le acque e finalmente inizia il vero travaglio, con le contrazioni che si susseguono senza tregua, l’utero che si dilata, e tutto per fortuna dura molto poco. Il tragitto in sala parto, a piedi, sostenuta da Sten e da un’ostetrica, ha pure del comico. Ma i venti minuti di spinte in sala parto li ricordo ancora per le mie urla e il mio dolore, cessati nell’istante in cui Lula è sgusciata fuori, e allora, sì, allora è iniziata l’altra fase, quella dell’emozione unica di vedere mia figlia appena nata. Guardarla negli occhi, avvolta nel panno verde, e piangere di felicità.

Le difficoltà sono iniziate a casa, con i pianti da interpretare, le poppate notturne, il primo bagnetto disastroso, le paure, il senso di inadeguatezza, la mente che iniziava a vorticare verso un abisso di insensatezza, il seno svuotato dall’ansia. Niente più latte, niente più lacrime, ma nemmeno sorrisi.

Nei momenti più bui, dopo una notte insonne, il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.

Da quella profonda depressione post-partum sono uscita in fretta grazie alle premure di chi mi era accanto, consapevole che avevo bisogno di aiuto. E grazie al bravo psico, che mi ha curata e compresa. E grazie, soprattutto, a Lula, a cui da quell’abisso sentivo di dover tornare.

Ma nei momenti bui il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.

Per tanto tempo mi ha accompagnato un senso di colpa per aver vissuto così i primi due mesi di vita di Lula. E immagino che si sentano allo stesso modo le madri che faticano a diventare tali, che annaspano e scivolano verso quel buco da cui non ci si può tirar fuori da sole.

Per tanto tempo ho desiderato un’altra maternità anche per poter riscattare quei due mesi “sbagliati”, sicura che sarebbe stato tutto più facile. La vita ha deciso altrimenti.

Bisogna capire una madre che non riesce ad esserlo, senza colpevolizzarla, e guai a non rispondere alle sue richieste di aiuto, anche solo per farla riposare un po’, per darle il tempo di ritrovarsi.

Compleanni e cicatrici – 12 gennaio

Oggi (ieri ormai) ho festeggiato i novant’anni di mia suocera e i diciassette della mia cicatrice ombelico-sterno risultato dell’asportazione delle metastasi epatiche. E pure i settantuno del mio ex psicoterapeuta, che ha curato la mia mente quando la depressione post-partum l’aveva avvolta in una nebbia fitta di angoscia.

Ho avuto cura di questa cicatrice fin dall’inizio, le ho voluto bene, mentre lo sbrego del seno, sei anni prima, l’ho detestato perché era davvero orrendo, e ha avuto bisogno di interventi migliorativi, fino ai lipofilling risolutivi e benedetti. Rappresentava la parziale mutilazione di una parte del mio corpo che amavo molto e che non riconoscevo più.

Ora invece amo anche quel capolavoro fatto dai chirurghi plastici per restituirmi almeno un po’ di quanto mi era stato tolto.

Ma questa che festeggio oggi, lunga e sottilissima, continuo a vederla come il segno di una liberazione dal mio male, il segno della guarigione e della vita che ricomincia. Non posso che amarla.


Come una funambola

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