Quando sento di quello che può accadere quando una donna, appena diventata madre, viene lasciata sola dopo un parto traumatico (sì, spiace dirlo, ma il parto può essere un trauma) o durante un post-partum che per svariate ragioni, chimiche, psicologiche, culturali, può trasformarsi in depressione, ritorno inevitabilmente alla mia esperienza.
Gravidanza meravigliosa, preparazione al parto tutta incentrata su training autogeno, yoga, respirazione, capacità di controllare le contrazioni, una sorta di allenamento a scodellare neonati, come se la questione fosse tutta lì, tirar fuori l’essere che hai tenuto nella pancia per nove mesi e poi fare di tutto per allattarlo al seno, il prima possibile, il più a lungo possibile.
Ma no, l’epidurale non serve, quella meravigliosa esperienza deve essere vissuta naturalmente, come fanno gli animali, come le donne hanno sempre fatto. Partorirai con dolore. Ma no, il dolore si controlla, soprattutto se ti sei allenata bene. E poi, che succede se non senti le contrazioni? Se non collabori? No no, meglio lasciar perdere l’epidurale.
Primo grave, gravissimo errore. Avrei potuto avere un parto senza dolore, e senza quel dolore che non è più inevitabile, anche quello dell’anima forse non sarebbe arrivato.
Poi arriva il momento fatidico, le contrazioni che iniziano di notte, due giorni allo scadere del termine. Io e Sten contiamo gli intervalli e decidiamo di andare in ospedale.
No, troppo presto, tornate a casa, prendi un Buscopan e cerca di riposare.
Macchè, tutta la notte sveglia, e quando la mattina torniamo in ospedale devo impuntarmi per farmi ricoverare.
Ho una stanza tutta per me, con le foto di Anna Geddes, e all’ora di pranzo decidono di darmi un po’ di ossitocina, si rompono le acque e finalmente inizia il vero travaglio, con le contrazioni che si susseguono senza tregua, l’utero che si dilata, e tutto per fortuna dura molto poco. Il tragitto in sala parto, a piedi, sostenuta da Sten e da un’ostetrica, ha pure del comico. Ma i venti minuti di spinte in sala parto li ricordo ancora per le mie urla e il mio dolore, cessati nell’istante in cui Lula è sgusciata fuori, e allora, sì, allora è iniziata l’altra fase, quella dell’emozione unica di vedere mia figlia appena nata. Guardarla negli occhi, avvolta nel panno verde, e piangere di felicità.
Le difficoltà sono iniziate a casa, con i pianti da interpretare, le poppate notturne, il primo bagnetto disastroso, le paure, il senso di inadeguatezza, la mente che iniziava a vorticare verso un abisso di insensatezza, il seno svuotato dall’ansia. Niente più latte, niente più lacrime, ma nemmeno sorrisi.
Nei momenti più bui, dopo una notte insonne, il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.
Da quella profonda depressione post-partum sono uscita in fretta grazie alle premure di chi mi era accanto, consapevole che avevo bisogno di aiuto. E grazie al bravo psico, che mi ha curata e compresa. E grazie, soprattutto, a Lula, a cui da quell’abisso sentivo di dover tornare.
Ma nei momenti bui il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.
Per tanto tempo mi ha accompagnato un senso di colpa per aver vissuto così i primi due mesi di vita di Lula. E immagino che si sentano allo stesso modo le madri che faticano a diventare tali, che annaspano e scivolano verso quel buco da cui non ci si può tirar fuori da sole.
Per tanto tempo ho desiderato un’altra maternità anche per poter riscattare quei due mesi “sbagliati”, sicura che sarebbe stato tutto più facile. La vita ha deciso altrimenti.
Bisogna capire una madre che non riesce ad esserlo, senza colpevolizzarla, e guai a non rispondere alle sue richieste di aiuto, anche solo per farla riposare un po’, per darle il tempo di ritrovarsi.
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