Posts Tagged 'dolori'

Ricordanze

Me lo ricordo così forte e protettivo, solido e rassicurante, che nemmeno la trasformazione degli ultimi sei mesi di malattia, né quel terribile ultimo giorno di vita, sono riusciti a sovrapporsi al padre che continuo a vedere quando lo penso.

In questi dieci anni tante volte ho provato a immaginare come avrebbe commentato certi eventi, quali consigli mi avrebbe dato, come sarebbe stato fiero di Lula, ma con momenti di severità professorale, così come li aveva con noi figlie.

Ho imparato a fare a meno di lui, perché quello che mi ha lasciato riesce a sostenermi anche nei momenti più difficili.

Però la mancanza è sempre lì, un buco nel cuore.

Sara

“Allo stesso tempo però anche raccontarsi talvolta era motivo di sofferenza, non solo per quel che di sé Sara andava scoprendo, mettendo nero su bianco il proprio vissuto, ma anche per le storie dolorose che intercettava e che potevano malauguratamente finire nel modo peggiore, nella paura delle paure, nell’evidenza che di cancro, purtroppo, si continua a morire, oltre che a guarire.

Quando accade che una di noi se ne va, lo sgomento mette a dura prova la fiducia che ci sostiene anche nei momenti peggiori: sembra la conferma crudele di ciò che con le parole e con la vita riaffermata abbiamo provato a ribaltare.”

Lo scrivevo proprio nel capitolo di Scriverne fa bene dedicato a lei, Sara.

Dopo dieci anni, con una recidiva mutata e incattivita, Sara se n’è andata.

L’unica blogger protagonista del libro che non avevo mai incontrato, però mi disse una cosa bellissima, che avevo interpretato il suo vissuto e le sue parole come se ci fossimo conosciute molto più profondamente.

Oggi, saputa la notizia, si è impossessato di tutte noi quello sgomento di cui avevo scritto nelle pagine che le avevo dedicato. Il dolore stanco, e rabbioso, perché di cancro si continua a morire.

Sara, che pubblicava foto meravigliose mentre faceva la chemio, truccata e sorridente, con splendidi turbanti.

Sara, che l’altro ieri ha avuto la forza di rispondere al mio messaggio vocale, per salutarmi.

Ciao bella, peccato non esserci mai potute abbracciare.

Senza parole

La piccola convalescenza è finita da un po’ ed è già dimenticata.

Sono senza parole.

Momenti di grande tristezza per il destino assurdo e crudele del nipote di una mia amica, un ragazzo francese di vent’anni che ho conosciuto quando ne aveva tredici durante una bella vacanza in Corsica, in campeggio: Samuel è stato ucciso “per errore” da un cacciatore mentre passeggiava in un sentiero, normalmente percorso da camminatori e cercatori di funghi, il giorno dell’anniversario della morte di sua madre.

Da quando ho saputo di questa tragedia cerco il modo di raccontarla, cerco parole. Ma non trovo il modo di esprimere l’abisso in cui si perdono i pensieri, l’insensatezza di una vita, già duramente colpita soltanto un anno prima, spezzata in questo modo.

Fine estate

Vacanze finite, domani si ricomincia.

Credevo di aver concluso in bellezza, con una inaspettata giornata in gommone all’isola del Giglio, l’isola che disegna l’orizzonte, l’isola ferita dal naufragio della Concordia. Andare in gommone al Giglio per me ha sempre significato andarci con papà, come l’ultima volta, un giorno di luglio della sua ultima estate.

Quando mi sono accorta che la capitana Antonella invece di restare nei paraggi ha puntato verso l’isola ho gioito come una bambina. Con gli spruzzi di acqua salata ci avrebbe accompagnato anche Capitan Sandro, che certamente continua ad abitare quel mare.

E poi il giorno dopo c’è stata un’altra giornata piena di allegria, di bel mare, di sole ancora caldo, persone care.

Ma tornando a casa, al tramonto, ho ricevuto una brutta notizia. Brutta, bruttissima. Tutto è cambiato: stato d’animo, pensieri, preoccupazioni.

Un’altra funambola deve percorrere il filo fragile che la sostiene, sempre più alto. Un tempo avrei detto “un’altra amica ha una battaglia durissima da combattere”. Siamo toste, mi sono limitata a dirle ieri, siamo torelle fortissime. Hai sorriso. Ci capiamo, anche se fai fatica a dire quello che vorresti. Anche se sei confusa. Anche se siamo diverse, il male è diverso. Eppure siamo così simili, ci siamo sempre capite al volo.

Ora ti toglieranno quella roba che ti sta confondendo. E passo dopo passo, andrai avanti. Io ci sono, amichetta.

Ho inseguito un tramonto meraviglioso, con tutte le isole visibili all’orizzonte, la bellezza di cui nutrirmi, da trattenere e da trasmettere.

Ciao Anna, Widepeak, amica e blogger

All’inizio Anna mi commentava come Misshajim e ancora non aveva aperto il blog On the widepeak. I suoi commenti erano sempre preziosi, e sentivo che tra di noi c’era una grande affinità, non solo data dalla comune sventura di avere o avere avuto il cancro. Un giorno mi scrisse una mail per invitarmi all’inaugurazione del festival di fotografia che aveva organizzato per la società di eventi per la quale lavorava, qui a Roma. Visto che non ci potevo andare mi ha fatto avere due biglietti, uno anche per Sten, da utilizzare quando volevamo. Quando poi ci siamo andati le ho telefonato per ringraziarla, dalla terrazza del palazzo delle Esposizioni, e in quell’occasione ho sentito per la prima volta la sua voce.

Dopo qualche mese Anna ha aperto il blog e finalmente abbiamo deciso di conoscerci di persona.

Io ero in pausa pranzo e lei appena uscita dai controlli nell’ospedale in cui è stata in cura per tutti questi anni, a poche centinaia di metri da dove lavoro, sullo stesso lato del Tevere. Abbiamo mangiato un’insalata di gamberetti molto buona, e intanto parlavamo, parlavamo, parlavamo, guardandoci negli occhi, che lei aveva bellissimi, azzurri.

Durante quell’incontro, come scrissi tempo dopo, Anna lanciò l’idea che poi ha portato alla nascita di Oltreilcancro, trascinandomi con il suo entusiasmo nell’impresa che dopo un anno siamo riuscite a realizzare, complice un pranzo delizioso organizzato nel giardino di casa sua, con le altre blogger che avevamo coinvolto. Ma prima di tutto, quel giorno, io e Anna siamo diventate amiche.

Da quel giorno sono passati quattro anni, durante i quali la mia malattia si è allontanata sempre di più mentre la sua peggiorava. Io non accettavo facilmente la sua accettazione, la sua consapevolezza di non poter guarire, di poter aspirare solo a qualche anno in più di vita, di non poter vedere le sue figlie diventare delle ragazze. Eppure è stato proprio grazie a lei, a quel lavoro difficile e profondo che faceva su di sé e cercava di comunicare agli altri, magari scrivendolo sul blog, commentando il mio, o parlandone a voce, o nelle decine e decine di mail che ancora conservo, se ho iniziato ad usare un linguaggio diverso per parlare del cancro. Quando ho scritto Come una funambola lei ha approvato il titolo, le piaceva tantissimo, mi ricordo bene il giorno che era passata a trovarmi in ufficio per parlarne, come al solito dopo aver fatto un emocromo di controllo. Mi ha accompagnata quando ho portato qualche copia del libro in ospedale dal dottor Zeta, poco tempo dopo la morte di mio padre, e in quell’occasione ne ho regalata una anche a lei. “Scusa, però non so se lo leggerò subito”, mi ha avvisata, mentre facevamo colazione in un bar di Trastevere.

Poi, un giorno, ha scritto questo post, la sua recensione. Ecco, anche ora, a rileggerla, piango come una fontana, e vorrei abbracciarla forte, accarezzarle il viso come l’ultima volta che l’ho vista, a casa sua, un mese fa, sapendo che sarebbe stata l’ultima, mentre guardavo con tenerezza le bambine appena tornate da scuola saltellare accanto alla mamma, ormai bloccata in un letto e attaccata all’ossigeno.

Ciao Wide, adesso, ogni mattina, quando farò la pratica dei Cinque tibetani penserò a te, perché sei stata tu a parlarmene e raccontarmi di quanto ti avevano fatto stare bene, e quanto ti dispiacesse aver smesso di praticarli. Volevi anche convincermi a iniziare il corso di meditazione, e invece ti ho disobbedito, facendoti arrabbiare un po’. Ci tenevi tantissimo, perché volevi il mio bene, e per te la meditazione è stato un bene immenso. Ora lo capisco ancora meglio. Scusami, vedrai che un giorno lo farò.

Mi manchi già tanto, ma è ancora più quello che mi hai lasciato. Grazie, indimenticabile amica.

Primo maggio fuori tema

Se questo blog non dovesse più raccogliere i miei sfoghi non avrebbe più senso.

Mettiamola così: non mi pare un bel periodo da nessun punto di vista, né personale e men che mai collettivo. Ma è soprattutto il disagio personale che in questo momento mi fa sentire come zavorrata, pesante, malinconica e non-felice. Infelice sarebbe troppo, ma non-felice rende bene l’idea. Credo.

Come se una fase della vita si fosse chiusa, e quella nuova non fosse nemmeno allo stadio embrionale. Un certo accumularsi di pesi che non ho più il fisico per sostenere, anche perché il fisico, il corpo, ha lottato come un leone in questi tredici anni e mezzo, e ti credo che non può più ruggire come un tempo. Che a questa faccenda del corpo si aggancia quella del sesso, ne parlavamo sabato scorso con Anna, Mia e Rosie, quando ci siamo incontrate da Eataly. Ci si rassegna ad una più o meno drastica pace dei sensi, che stupidaggine chiamarla così. Non credo che i sensi possano stare in pace, caso mai sono stati messi a tacere dalle terapie, dalle preoccupazioni troppo grandi, dal cancro che ci ha strappato vitalità dagli anni che potevano essere i migliori. Ho consigliato a tutte di non rassegnarci, ma tra il dire e il fare il mare non manca mai.

Sento disarticolarsi la struttura del ruolo svolto, e il fatto che a Lula manchi pochissimo, poco più di due anni, a diventare maggiorenne (e quindi adulta), mi fa sentire orgogliosa di me, di noi e di lei, ma sempre meno indispensabile alla costruzione della sua vita. Solo tanto preoccupata che possa diventare come se la immagina ora o come cercherà di realizzarla in futuro. Sostenuta da una società migliore di quella che sta franando – che è franata – sotto ai nostri occhi.

Conosco bene il dolore che provoca il morso della depressione, conosco il buio e lo smarrimento di quel male. E so che per dire quel male non si trovano parole, almeno non mentre lo si vive. Quindi so che non si tratta di quello. Non sono depressa, se non vagamente. Come stato d’animo e non come stato psichico. E se il mio prezioso supporto che tanto tempo fa mi ha tirata fuori dal gorgo dovesse leggere queste mie parole capirà cosa intendo.

Tuttavia, buon primo maggio, lavoratrici, lavoratori, disoccupate e disoccupati, e perdonate la tirata che con il lavoro non c’azzecca niente. Ma oggi mi va così.

Il secondo compleanno senza Anna Lisa e altre riflessioni

Ieri sarebbe stato il compleanno di Anna Lisa. Purtroppo non sono potuta andare dalle sue parti, dov’è stato organizzato dall’infaticabile nucleo montecatinese dell’associazione Annastaccatolisa un’iniziativa per ricordarla, raccogliere fondi e ascoltare come procede il lavoro di Cristina Raimondi, la ricercatrice che sta usufruendo della borsa di studio che abbiamo istituito per sostenere la ricerca sul cancro al seno. So che è stata una giornata bella e intensa, e so anche che in tanti ieri abbiamo rivolto un pensiero a lei, ad Anna Lisa, anche in quel modo un po’ strano che è scrivere sulla sua pagina Facebook.

Proprio in questi giorni sto scrivendo di lei, con molta fatica, aiutandomi rileggendo il blog, il libro, i commenti e le mail che ci siamo scambiate. Sto scrivendo di lei e di noi che abbiamo scelto (o c’è capitato inevitabilmente) d’infrangere il tabù del silenzio e dell’occultamento che storicamente accompagna il cancro raccontando pubblicamente in un blog proprio l’esperienza di malattia che più di ogni altra si tende a tenere nascosta, o almeno riservata.

Ieri ho avuto un’interessante suggestione da un’amica blogger dei primi anni gloriosi di scrittura in rete, mentre le parlavo del progetto prima di andare a sentire insieme il commovente omaggio a Tabucchi alla Festa del libro. Mi ha detto: “potresti parlare anche di chi, pur avendo un blog ha deciso di non utilizzarlo per raccontare questo aspetto della propria vita.”

Credo proprio che lo farò, anche perché troppo spesso ho dato per scontato che la nostra scelta fosse giusta e utile, senza confrontarmi con le altre possibilità, e le motivazioni che le sostengono.

 

 

Post ad alto contenuto depressivo (poi passa, scialla)

Sta arrivando l’estate, Lula ha finito il primo anno di liceo, io mi avvicino ai miei ennesimi controlli semestrali e ho voglia di fare bilanci. No, niente bilanci, solo qualche riflessione per capire che direzione sta prendendo la mia vita e, soprattutto, se c’è qualcosa che posso fare per farmela piacere di più.

Sicuramente non sono stati mesi facili, e nemmeno particolarmente felici. Ho faticato tanto a fare la madre, come non immaginavo si potesse faticare con una figlia che fin dalla nascita una cara amica chiamava “la fantastica”, non mi sono piaciuta particolarmente nemmeno come moglie, visto l’indotto e temo ormai irreversibile deficit ormonale che certo non fa per niente bene alla vita sessuale e all’equilibrio emotivo. Credo anche di non essere stata sempre sufficientemente amorevole come figlia di una madre che non smette di soffrire, con rabbia e dolore, la perdita di suo marito. Il fatto è che io sto soffrendo moltissimo la perdita di mio padre. Non ne parlo mai, non ne scrivo mai. Però mi manca.

Lo so, non dovrei essere così ingenerosa e poco comprensiva nei confronti di me stessa, ma adesso mi sento così, almeno dal versante strettamente personale e familiare.

E poi ci sono state le brutte cose di cui ho già scritto, lutti pesanti, tragedie che lasciano storditi e scavano nell’anima dei solchi che si fa fatica a riempire, instillano nuove e vecchie paure, e un moto di rivolta che però si risolve in un misero sbattere d’ali.

Non chiedetemi di spiegarmi, non so farlo e non ne ho voglia.

Sono solo molto, molto stanca, molto triste, molto consapevole dei limiti che m’impediscono di dare una di quelle svolte esistenziale alla mia vita e che invece, in passato, mi hanno fatto rinascere, rifiorire. E ritrovare la mappa per uscire dal naufragio.

L’unica cosa che brilla davvero è il lavoro fatto per Annastaccatolisa, la borsa di studio bandita (a proposito fate girare voce, e ricordatevi che per presentare le domande c’è tempo fino al 31 agosto) e i 20.000 euro già raccolti. Siamo stati bravissimi, e quando qualche giorno fa la nostra preziosa tesoriera Milva, in piena emergenza terremoto, ci ha comunicato che eravamo già a questo punto, tutte le preoccupazioni anche su quel versante sono svanite. Ce la faremo, perché a muovere tutto è stata lei, Anna Lisa.

Ma per il resto no, non sono contenta, non riesco a portare avanti progetti di scrittura avviati e non mi sono più occupata di trovare un vero editore per Come una funambola, anche se continuo a pensare che se lo meriterebbe.

[Potrei fare una panoramica sulla disastrata vita pubblica, economica, politica e sociale, ma anche no. Lasciamoci con un filo di speranza, ché i periodi di crisi possono anche essere molto fecondi.]

Bene. Dopo questa pars destruens prometto che mi dedicherò a quella construens.

Terremoti e vulcani

Sono stati giorni terribili. Pessime notizie, una dopo l’altra. Mentre la terra tremava in Emilia e tanti operai rimanevano schiacciati dai capannoni industriali, venuti giù come castelli di carta, un’altra giovane donna amica è stata portata via dal maledetto cancro. Quattro anni di malattia vissuti con estrema riservatezza, tanto da aver scoperto per la prima volta che il mio approccio talvolta può infastidire, ed essere giustamente respinto, se si sceglie di percorrere una strada diversa.

Ho avuto una crisi di nervi, bruttissima, dolorosa, come lava che dopo tanto premere trova il cratere da cui eruttare.

Un battibecco che in un altro momento avrei fatto decantare è diventato quel cratere, e c’è stata l’esplosione.

Ora credo che sia stato un bene aver urlato, e poi pianto, e poi respirato in silenzio e solitudine per un po’. Ormai lo so che le lacrime devono essere piante, e la rabbia espressa e mai covata, per non dare tempo al dolore di annidarsi nel corpo, a far danni.

Ormai lo so.

So che forse dovrei proteggermi di più, e imparare a tenere i nervi coperti.

Ma io non ho mai indossato le corazze, nemmeno quando infuriava la battaglia.

Perdersi

Venerdì pomeriggio. Imbocco la strada di casa, a senso unico e dopo pochi metri sono costretto a svoltare a sinistra perché le auto tornano indietro contro mano. Non mi preoccupo, è già successo in passato, per lavori, o qualcosa che ostruisce il passaggio, come un ramo. Invece una signora dal finestrino aperto dice una ragazza di 17 anni si è buttata dal quarto piano. Ma perché, cazzo? Come si fa? Perché a diciassette anni, in un quartiere “bene” di Roma, una ragazza decide di rinunciare al proprio futuro? Comincio a fare mente locale, nel mio palazzo non ci sono diciassettenni al quarto piano. Però mi s’incolla addosso la sensazione di vicinanza con la tragedia che deve essersi consumata. Riprendo la strada dalla fine, una signora mi aiuta a immettermi contromano per parcheggiare. Dopo la curva c’è l’ambulanza che blocca il passaggio, tre macchine della polizia parcheggiate, ragazzi dall’aria smarrita e con gli occhi lucidi. Casa mia è poco più avanti, dal lato opposto. “La figlia della professoressa” sento mormorare. La figlia della professoressa, la professoressa di Lula delle medie che qualche giorno fa mi ha dato un passaggio perché mi ha visto correre trafelata per fare mezz’ora di baby sitter al posto di Lula, che sarebbe arrivata un po’ in ritardo. E quante volte abbiamo chiacchierato incrociandoci davanti casa, le era piaciuto tanto il mio libro, lo aveva letto perché la riguardava direttamente. Sì, quello è il palazzo della professoressa. E la professoressa ha una figlia, Lula me l’ha indicata varie volte, con la sigaretta in mano e i capelli che cambiavano spesso colore. Può avere diciassette anni.

Col cuore in gola arrivo davanti casa, il figlio dei vicini, affacciato al balcone, mi racconta quello che ha sentito, quello che sa.

Abbraccio un’altra ragazza, anche lei ex allieva della professoressa, inizio a piangere, e faticherò a smettere.

La strada ha iniziato a riempirsi di persone, amici, allievi, ex allievi, genitori di allievi e di ex allievi. Tutto il pomeriggio, fino alla sera. Hanno iniziato a circolare spiegazioni, ricostruzioni, dinamiche, lacrime e incredulità.

Quando più tardi saliamo, insieme a Sten e a Lula, l’abbraccio e mi sussurra che noi abbiamo “quella” cosa in comune. Ma avere quella cosa in comune non mi aiuta a trovare parole che non siano prometterle che può contare su di me, abitiamo vicine, t’invito a cena. Bene, ma cucino io, risponde lei.

Al funerale il papà della ragazza ha invitato i tanti ragazzi presenti, disperati, e  noi genitori, sgomenti, ad amare e amarci di più, senza dimenticare che l’amore va dichiarato, manifestato. Sempre.

Continuiamo ad andare dalla professoressa, ad abbracciarla, a parlare di tutto e di niente, a riempire la casa dove altrimenti resterebbe sola, straziata da un dolore che adesso sembra solo un euforico stordimento.

E domani tornerà a scuola, dai ragazzi – almeno ci provo, ha detto.


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