Posts Tagged 'le battaglie degli altri'

Le buone cure

“…e non so descriverti la faccia dei medici che hanno letto la Pet. Avevano gli occhi di fuori, e continuavano a dire incredibile! Incredibile!”

Io quelle facce me le immagino bene, come immagino gli abbracci e la commozione con l’oncologa di solito un po’ “freddina”, che di fronte a un risultato così eclatante si lascia andare all’entusiasmo.

Un’amica che più di un anno fa è stata operata per un carcinoma polmonare a giugno ha scoperto di avere una recidiva. Dopo un paio di cicli di chemio inefficaci ha potuto assumere un farmaco che si sta sperimentando negli Stati Uniti, essendo anche lei portatrice della rara mutazione genetica (ROS1) su cui si fonda l’efficacia della molecola.

“Sembravo una pazza, la chiamavo la pillola miracolosa, ma ci credevo, ci speravo.”

Ha fatto bene a crederci, a sperarci, è stata anche fortunata ad aver trovato chi le ha fatto intravedere questa possibilità, l’ha aiutata a inviare il DNA negli Stati Uniti e poi a farle ottenere il farmaco.

Dopo un mese di assunzione la Pet sembra quella di un’altra persona.

“Hai presente il pallocco nero che si vede dalle lastre? Non c’era più.”

Sì, lo so cosa significa quando la cosa, macchia nera, il pallocco, un cancro insomma, svanisce.

E questo è accaduto senza chirurgia, senza lunghi e impegnativi mesi di chemio, semplicemente assumendo due pillole al giorno.

Ecco, questa storia meravigliosa rafforza la mia convinzione sulla possibilità concreta che anno dopo anno la ricerca moltiplichi le scoperte su quel che accade a quelle cellule bastarde quando si mettono a proliferare e a far casino in giro, trovi nuove cure che riescano a colpire anche i tipi di cancro più resistenti, quelli cattivissimi, quelli che hanno fatto morire papà, Anna Lisa, Chiara e ancora tante, troppe persone.

Mi sono letta con attenzione i progetti che sono stati presentati per la Borsa di studio Annastaccatolisa. Non sono un’addetta ai lavori, ma ho capito che qualunque risulterà vincitore contribuirà a fare questo. Se vi interessa saperne di più venite a Montecatini Terme il 6 ottobre, alle 15.30.

 

Gli ultimi auguri

Ieri ho approfittato dell’assenza di Lula, in Umbria con un gruppo di amiche per festeggiare Halloween, del brutto tempo e del freddo casalingo per abbandonarmi completamente alla tristezza e alla contemplazione dell’assenza, della nostalgia, della mancanza. Non mi sono alzata del letto per tutto il pomeriggio, avevo il pc, i libri che sto leggendo  – “The girl of via Flaminia” di Alfred Hayes e “Il cuore cucito” di Carole Martinez – la gatta che ronfava sonoramente, il quaderno con gli appunti di scrittura che prendo in modo disordinato e in luoghi diversi (agende, quaderni, pc, fogli volanti), con il risultato che mi perdo i pezzi delle storie che inizio.
Poi ho lasciato perdere tutto, ho spento la luce pensando di voler dormire un po’, e invece ho iniziato a piangere e a singhiozzare.
Più tardi, dopo essere stata coccolata da Sten, dal quaderno è saltato fuori il biglietto di auguri per il mio compleanno dei miei. Era il 2 maggio scorso, pochi giorni dopo i primi infausti esami di papà. Con la sua bella calligrafia, allora ancora ferma, scherzava sul fatto che quest’anno avevo dei genitori più “bacucchi” del solito…
E mi auguravano, lui e mamma, 100 di quei giorni.
Ho frenato un nuovo fiume di lacrime, limitandomi a carezzare il biglietto, a lungo, scuotendo la testa.

Ciao, papà

Negli ultimi giorni mi ero immaginata tutto quello che avrei scritto il giorno in cui sarebbe accaduto.
Perché sapevo che quel momento si stava inesorabilmente avvicinando.
Perché una diagnosi di carcinoma polmonare già metastatizzato al fegato e alle ossa è infausta. E’ senza speranza. Quante volte il dottor Zeta me l’aveva detto: “Giorgia, hai capito che papà è tanto grave, vero?”. E quante volte ho dovuto ingoiare quello che sapevo e sentivo, per cercare di infondere quel coraggio senza il quale il cancro è un mostro spietato che può solo terrorizzare.
Papà invece era sempre stato un inguaribile ottimista, la sua incrollabile fiducia nella scienza lo rendeva convinto che una volta iniziata una terapia medica le sue condizioni sarebbero progressivamente migliorate.
Lui era uno scienziato, il geologo con la tuta rossa nei vasti ghiacci dell’Antartide e con le arance in mano, da bambina, per spiegarmi i movimenti della terra, un inventore, un costruttore, una persona integra e retta come poche – ti pare che riscrivo lo stesso articolo in forme diverse, come fanno in tanti? Vorrà dire che resterò associato – un appassionato uomo di mare, che quella volta all’isola d’Elba, rimasti soli in barca a vela, mentre infuriava una burrasca, si fidò di me, anche se avevo solo dieci anni.
I miei intrugli che sanno di cacca e terra (così definiva la tisana Caisse) li prendeva solo per compiacermi, salvo rifiutarli quando non ne poteva più di ingurgitare farmaci a tutte le ore del giorno. E allora, come diceva lui, si prendeva solo le cose “per la vita”, ovvero quello che secondo lui erano i farmaci importanti, non le stupidaggini stregonesche.
Il fatto è che ho cercato di trasmettergli il mio approccio alla malattia sapendo perfettamente che non sarebbe mai guarito.

Le sue condizioni infatti non miglioravano, se non nella percezione dei sintomi. Perché quei terribili dolori erano spariti. Ma sopraggiungevano altri fastidi, un braccio che non rispondeva più ai suoi comandi, le notti difficili, il suo bel corpo robusto – spalle larghe e schiena dritta – che deperiva e s’incurvava, l’intontimento che gl’impediva di mantenere l’attenzione sulle cose: un libro, il giornale, un film.
La malattia non arretrava, né si fermava.
Il bastardo era corazzato per respingere la chemio, come la prima tac di controllo ha impietosamente rilevato. E un secondo tentativo è stato interrotto quasi subito vista la pesantezza degli effetti collaterali su di un fisico così provato.
E così, senza che lui fosse ancora pienamente consapevole della gravità della situazione – e di questa inconsapevolezza mi rammarico, perché sono sicura che gli abbia disinnescato una possibile carica reattiva –  Zeta ha deciso, durante un doloroso incontro con me, mia sorella e mia madre, di fare un estremo tentativo con un farmaco biologico.
Una settimana fa gli ho portato a casa la confezione preziosa, insieme a una copia del mio libro, fresco di stampa. Era contento, per entrambe le cose. Gli sembravano due regali. Una pasticca invece della chemio, e il libro della sua figlietta.
Però ha fatto giusto in tempo a sfogliarlo, e a contrappuntare con i suoi ricordi le prime 27 pagine che l’infermiere Gianluca gli ha letto a voce alta.
Della confezione di Tarceva ha preso solo cinque compresse.
Ieri per ore l’ho guardato spegnersi, per ore ho visto il mostro spadroneggiare nel suo corpo.
L’ho implorato di andarsene, o di portarselo via in fretta.

Se l’è portato via in fretta.

Quel bastardo.

Incasszzata

Ecco che la strada inizia a restringersi, a farsi vicolo angusto diretto dove non si vorrebbe mai arrivare. 

Da lontano monta l'ansia, ma quando entro nel vicolo divento efficiente, lucida, nessun tremito di voce, si dissolve il groppo in gola, faccio quel che serve fare, dico quel poco che mi sembra non sciocco dire, osservo, ho imparato a fare il linfodrenaggio ai piedi, ascolto il respiro affannoso, racconto com'era stato per me, leggo a voce alta gli articoli di giornale più interessanti, annuisco alle parole "mi sento in battaglia. In battaglia. Una battaglia che non finisce mai." 

"Sei troppo insaccato, ti aiuto a tirarti su."
"Incazzato?"
"Sì, incazzato e incassato."
Adesso ti tiro su.
Pure io sono incazzata. E così triste dentro da sentirmi vuota. Pure io incassata nel dolore.

prima settimana

E' passata solo una settimana da quando sono tornata, e mi sembra un secolo.

Lula dorme in salotto, visto che oggi è iniziata la ripittura della sua stanza. Sabato, mentre la smantellavamo, ho avuto una crisi di nervi spaventosa: causa scatenante la sua esasperante pigrizia, motivo reale la mia preoccupazione, la mia paura, il mio dolore, la mia fragilità emotiva, l'ordigno emotivo pronto ad esplodere in qualunque momento. Per fortuna la provvidenziale Ignazia amara è sempre pronta sul comodino: mentre Sten cercava di calmarmi e/o di farmi riconoscere la vera natura di quel fiotto di rabbia che avevo appena vomitato su di loro, mandavo giù le gocce omeopatiche antiansia. 

Sto finendo di preparare il libro per l'autopubblicazione, ogni tanto mi prende qualche ripensamento, un senso di sconfitta per non essere riuscita a trovare un editore, o per non avere avuto la pazienza di aspettare ancora un paio di risposte. Poi sfoglio la seconda copia di prova, riguardo il file della copertina forse definitiva, incasso con una certa soddisfazione i commenti di chi l'ha vista, ringrazio commossa gli amici addetti ai lavori disposti ad aiutarmi a promuoverlo, e ritorno sui miei passi. Incerti.
Come quelli di funambola. 

 

Fine agosto

Ultima sera sul colle maremmano.

Ho ceduto alle richieste di Lula che aveva un invito a dormire da un'amica che si chiama come lei e che ha una madre che si chiama come me. Spesso succede così, che solo alla fine della vacanza si scatena la sua vita sociale, di giorno alla spiaggetta sotto casa e la sera nel più brutto paese della toscana – il più vicino al colle – con un gruppetto di coetanei. Temevo che quest'anno non avrebbe retto, visto che noi abbiamo sempre amici nei paraggi, lei invece no. E' stato particolarmente carino rivedere un'amica/compagna dei tempi della fgci che trascorre qui tutta l'estate, da qualche anno. Non ci eravamo mai incontrate, ma evidentemente attraverso un mio messaggio sibillino su facebook ha scoperto che parlavo proprio degli stessi luoghi.
Un paio di volte sono tornata a Roma a fare un po' di coccole a mio padre e a mia madre, a ritirare referti e parlare con medici. Avrei voluto esserci sempre, ma non avevo voglia di stare troppo a lungo lontana da Lula e Sten. E' stato un compromesso accettabile, una vacanza non proprio spensierata, ma qualche momento di stacco e di ricarica c'è stato. Ho letto non moltissimo, scritto niente, pensato poco.
Domani è un altro giorno.

Immaginare e sentire

Questo post potrebbe suscitare sorrisetti ironici e alzate d'occhi al cielo. Anche qualcosa di peggio.
Però quando a me sono state dette o quando ho letto cose simili a quelle che sto per scrivere, ho iniziato a cambiare radicalmente prospettiva e atteggiamento verso la realtà pessima che stavo vivendo riuscendo a invertire la tendenza negativa.
Ogni volta che mi sono sentita intrappolata dalla paura e da un destino funesto mi sono ricordata che era possibile uscire da quel loop immaginandomi fuori, guarita e felice di esserlo.
Quando il 5 novembre del 2005 ho scoperto che dopo sei anni mi era tornato il cancro, sotto forma di metastasi al fegato ho dovuto aspettare  oltre due mesi di attesa prima di essere operata e curata dalla chemio. In quei due mesi ho fatto cose che voi umani… Ho fatto cose che in condizioni normali probabilmente non avrei mai fatto, ho creduto di poter eliminare il cancro meditando sui colori dei chakras, abbandonandomi alle cure di una guaritice, ripetendo come un mantra che le mie cellule erano sane, attivando il qi, o chi, o energia, o prana con i passi dell’anatra selvaggia che mi ha insegnato il maestro cinese di Qi gong, visualizzando l’impazzimento delle mie cellule e il loro rinsavimento. E sono certa che non sono state solo la chirurgia e la chemio a curarmi. Tutte quelle cose un po’ stregonesche che facevo hanno contribuito in modo sostanziale a farmi guarire. Io lo so.
Quando un anno e mezzo fa era riapparso un sospetto nella tac, avevo dimenticato che cosa dovessi fare. Stavo precipitando nel terrore, ero convinta che tutto stesse ricominciando da capo. Poi mi è stato regalato un libro che cerca di tenere insieme fisica quantistica, misticismo, meditazione orientale. Ho iniziato a sfogliarlo mentre aspettavo di fare un’ecografia che avrebbe dovuto fugare il dubbio. Via via che leggevo quell’invito a credere nel potere di realizzare i desideri immaginandoli come già realizzati, provando a sentirsi e a emozionarsi come se fossero già realizzati, cominciavo a sorridere di felicità per la certezza di avere tutte le cellule a posto.
Infatti il dubbio non era una nuova metastasi ma un innocuo angioma.
In questi giorni ho avuto bisogno di ricordarmi che cosa significa pensare la guarigione e sperimentarla come avvenuta. Sto cercando il modo di trasmettere questo pensiero a un’altra persona, ma non è facile e non so se potrei riuscirci. Non ancora. Allora ho deciso di farlo io. Ho deciso di immaginare e sentire come già avvenuta la guarigione delle persone che in questo momento stanno male e aspettano di ricevere le cure giuste. Immagino e sento. E le cose cambiano, si trasformano, migliorano.
Voglio restare in questo stato – apparentemente mistico e irrazionale – per tutto il tempo necessario. Senza dimenticare mai che sappiamo pochissimo di ciò che possiamo essere e di ciò che abbiamo il potere di fare.
 
 

PER CHI E’ ANCORA IN BATTAGLIA

 

Dopo i baci e gli abbracci con l’infermiera Giovanna, la caposala Anna e con l’ematologo, il dottor A., mi sono messa ad aspettare fuori della stanza di Zeta, indecisa se bussare prima dal dottor Esse per salutarlo.
C’erano due signore che mi fissavano, una diceva all’altra "è lei, è lei". Allora le ho guardate meglio, una non riuscivo a riconoscerla, l’altra invece mi ha puntato due occhi inconfondibili, bellissimi, chiari. Però aveva una parrucca diversa, sempre bionda, ma più lunga. Molti, troppi, chili di meno. Ma sempre bella, curata, sorridente. 
"Rosanna!" Ho esclamato. 
Me la sono stretta forte. Ci siamo strette forte. Ho salutato la sua amica, anche lei una paziente di Zeta che però sta benone da anni, niente recidive, era lì solo per accompagnare Rosanna alla sua ennesima seduta di chemio.
Rosanna con un filo di voce, per un problema alle corde vocali. Un problema stupido, rispetto a tutti gli altri: le metastasi con cui combatte da quattro anni. Allora ai polmoni e alla spalla, poi al cervello, fermate dalla radioterapia, e poi il fegato, e poi ancora le ossa. Ma combatte, sorride, e resiste. 
Abbiamo potuto parlare poco, un po’ perché non volevo che sforzasse la voce, e poi perché è stata chiamata, toccava a lei. Un altro abbraccio, la promessa di chiamarci.
Il tempo di fare ancora qualche chiacchiera con la sua amica, e poi dentro, da Zeta. Ad aggiornare la cartella, rifare i piani terapeutici scaduti, scrivere il certificato per l’imminente visita di revisione dell’invalidità e della legge 104.
Sapeva che avevo visto e amato il film La prima cosa bella, e lui invece, da medico, ha considerato assurdo il modo di rappresentare una malata terminale (la Sandrelli). Ma sì, certo, nessuna malata terminale è così, purtroppo. Ma il film è una commedia, e il personaggio richiedeva quella vitalità, fino alla fine.

Prima di andarmene ho incontrato anche il dottor Esse, affezionato lettore (e commentatore) del blog. Da lui ho saputo che vogliono spostare la farmacia che prepara i chemioterapici all’ospedale San Camillo. Questo significa rendere ancora più complicata la vita del day hospital oncologico, quasi a volergli infliggere un colpo letale. Dell’ex San Giacomo ormai non parla più nessuno, se non per continuare a promettere riaperture in forme sempre diverse. 
Le candidate a Presidente della Regione Lazio, Bonino e Polverini, non hanno ancora speso una parola sulla questione. Ma tanto ciò che conta davvero non sono le eventuali promesse, ma quello che verrà fatto subito dopo le elezioni. Intanto però non sarebbe male se ci fosse almeno un progetto chiaro sulla disastrata sanità laziale.

 

BLOGGING FOR CANCER CURE

Sono in fibrillazione. Un progetto delineato chiacchierando davanti a un piatto di riso con gamberetti insieme ad Anna, in pochi giorni sembra già vivere di vita propria, sospinto da un entusiasmo e un interesse che supera le più rosee aspettative. La parola chiave è blogging for cancer cure – mi dispiace, ma in italiano non viene bene… E se davvero, come sembra, sarà possibile realizzare quello che io e Anna abbiamo in mente, le imminenti ricorrenze di novembre (cinque anni di blog, quattro dei quali attraversati dal tema della battaglia contro il cancro iniziata dieci anni fa) si intreccerebbero felicemente. E poi, certo, se pure la creatura, il libro che sta in fase di decantazione, riuscisse a venire alla luce, giuro che la smetterò di lamentarmi.

SULLA SCRITTURA COME TERAPIA (E NUOVE NOTIZIE DAL SAN GIACOMO)

A proposito di quello che ho scritto nel post precedente, oggi aprendo Repubblica mi sono imbattuta nell’articolo di Corrado Sannucci (di cui ho parlato qui, a proposito del suo libro A parte il cancro tutto bene) che s’intitola proprio "La scrittura come arma per guarire", anche se poi, leggendolo attentamente e considerando anche l’interrogativo con cui si conclude ("ma davvero chi scrive ha voglia di un lettore?"), mi pare piuttosto scettico sul valore della scrittura di sé come atto anche terapeutico. ("E’ triste dirlo, ma le malattie sono duramente ripetitive e ripetitive sono le narrazioni che la riguardano, anche quando vogliono denunciare disservizi o mancanze dell’assistenza sanitaria […]") In fondo era la stessa cosa che mi scrisse rispondendo a una mia mail, l’inverno scorso ("ma davvero hai ancora voglia di raccontare la tua prima battaglia?") e che mi lasciò un poco perplessa, visto il libro che aveva scritto. Nell’articolo di oggi (pp. 47-48 Le guide di Repubblica, sul Festival della salute di Viareggio) Sannucci scrive: "Tanti di coloro che hanno risposto alle sollecitazioni del mio libro […] esprimevano il desiderio di voler raccontare la loro storia. A volte però sembrava una pulsione originata da quest’età nella quale ognuno si sente titolare di un blog od obbligato ad un outing." Quello che intende dire Sannucci, almeno nell’articolo, è che scrivere autobiografie sul cancro non deve diventare un luogo comune. Piuttosto la malattia deve aiutare ad "assecondare meglio la propria natura", che non sempre è quella di scrittore/scrittrice.

E’ vero, oggi si sono moltiplicati i blog di chi fa outing sul proprio stato di salute e decide di condividere con altri il percorso accidentato che si sta facendo, o che si è appena fatto per vincere una battaglia che un tempo nessuno osava raccontare. Sono blog straordinari, che hanno permesso a chi li ha aperti di scoprire di avere un talento narrativo, una capacità di autoanalisi rara e, soprattutto, di non dover affrontare in solitudine e silenzio la propria condizione.

Oggi c’è anche questa notizia, che riguarda il San Giacomo e una sua probabile riapertura. Io non mi fido più, non mi bastano gli annunci, e mi sembra tanto una sporca manovra pre elettorale.


Come una funambola

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