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Anna, Michela e la libertà di raccontare

Chi mi conosce o ha letto questo blog nel corso degli anni sa che prima di Michela Murgia è stata Anna (https://widepeak.wordpress.com) a farmi capire cosa significhi non considerare il cancro un nemico da combattere e quanto fosse rischioso l’uso delle metafore belliche, soprattutto quando la malattia avanza e le prospettive di guarigione si affievoliscono, fino a scomparire del tutto.

Anche grazie a lei ho modificato il titolo del mio libro, che inizialmente doveva essere Nella battaglia, perché così avevo taggato i post del mio racconto pubblico quando ho scoperto che il cancro al seno che credevo aver debellato aveva invece metastatizzato nel fegato. 

Con il tempo, e anche grazie all’incontro con Anna, la metafora bellica ha iniziato a starmi stretta, e ne ho scelta un’altra, che incarnasse meglio la condizione di precarietà che si vive dopo una diagnosi di cancro. Mi sentivo più come una funambola che come una combattente.

Ho cercato di dare un senso a questo cambiamento di linguaggio anche raccontando le diverse esperienze di narrazione della malattia attraverso un blog in Scriverne fa bene. narrare la malattia, curarsi con un blog (Zona, 2012). In ogni storia l’uso delle parole che definiscono la malattia e le cure rappresenta una scelta più o meno ponderata, ma certamente indicativa di libertà e desiderio di infrangere i tabù legati al cancro.

Anche oggi, a distanza di quasi diciott’anni da allora, se qualcuno mi dice “tu che hai sconfitto il cancro” dico “no, non l’ho sconfitto. Meglio pensare che le cure hanno funzionato e sono guarita.”

Tutto quello che ho fatto, nei mesi successivi alla diagnosi, è stato affidarmi alla medicina accompagnandola con tutte le strategie più o meno alternative che mi sembravano utili a guarire.

E nessuno mi ha mai detto che il mio cancro e le mie metastasi non fossero curabili.

Ma quando c’è stato il sospetto che oltre al fegato le metastasi avessero attaccato anche una vertebra ero sicura che sarei morta. E per un pomeriggio intero mi sono messa a letto, a piangere, pensando a Lula che era troppo piccola per perdere sua madre.

Anche allora nessuno mi ha detto che non sarei potuta guarire. Anzi, che c’era molto da fare. Ho pure iniziato a fare pratiche di autoguarigione, convinta che la mia testa avesse il potere di sanare quel grumo di mie cellule che avevano svalvolato per qualche ragione che risiedeva dentro di me, nel mio corpo, nella mia anima.

Poi quel sospetto è stato fugato, io ho continuato a fare la pratica, ma le metastasi del fegato erano lì, andavano tolte chirurgicamente. E di nuovo chemio, e terapia ormonale. E insomma, per me le cose sono andate bene, ma ci ho messo anni e anni a sentirmi davvero guarita.

Anna, invece, quando ha visto che le sue metastasi non sparivano, anzi, si riformavano, ha capito che con il cancro, nella migliore delle ipotesi, avrebbe dovuto conviverci, e per un tempo non troppo lungo: “ho ben chiari i confini della mia condizione e sono pronta a esplorarne i limiti ed eventualmente a superarli se la scienza me lo consentirà. Ma non posso fare finta di non aver letto queste statistiche. Questo in qualche modo significa che il pensiero della morte spesso mi è vicino. Non come uno spauracchio, non come un mostro pauroso. Semplicemente ci penso.” (Dal post del 17 febbraio 2011, cit. a p. 38 di Scriverne fa bene)

Anna è morta quasi 10 anni fa, ed è stato inevitabile pensare a lei quando a maggio ho letto l’intervista di Michela Murgia nella quale rivelava di avere un cancro metastatico e quindi una ridotta aspettativa di vita.

Ho iniziato a seguire con commozione la strada che aveva intrapreso, e tante volte avrei voluto contattarla per dirle quanto la comprendessi e considerassi importante che una donna così attiva nel dibattito pubblico avesse deciso di condividere la sua condizione di malata terminale. Non l’ho fatto, e me ne rammarico.

Ho sofferto, come certamente ha sofferto lei, quando leggevo commenti infastiditi, o veri e propri attacchi disgustosi per la libertà con cui lei aveva scelto di vivere e rendere pubblica la fase più delicata e difficile della propria esistenza.

L’hanno accusata di volersi fare pubblicità e di usare la malattia per aumentare le vendite del libro che aveva appena scritto. Che miserabili! 

C’è chi ha addirittura messo in discussione il fatto che Michela potesse affermare che il suo cancro, metastatizzato ormai ovunque, non fosse più curabile.

Qualcuno ha considerato questa consapevolezza un “cattivo esempio” per altre persone gravemente malate, invece di leggerla come l’estremo atto di libertà, uno squarcio nel buio che terrorizza.

Altri si sono indignati per la “spettacolarizzazione” di una vicenda così intima, come se ci fosse un solo modo per affrontare il cancro e la fine della propria vita: quello del silenzio, della solitudine e della vergogna, quello del nascondimento dei segni che sembrano spaventare più chi li guarda di chi li porta sul corpo o li esprime con le parole.

Io invece ho trovato confortante vedere i sorrisi luminosi di Michela, i cappelli e i turbanti colorati, gli abiti bianchi del matrimonio contratto per garantire che le proprie scelte fossero rispettate, visto che la sua famiglia queer non aveva lo stesso riconoscimento di quella tradizionale. 

È stato un conforto ascoltare e leggere le parole con cui ha spiegato il senso delle sue scelte. Parole, come ho già detto, per me non del tutto nuove. Ma pronunciate da una donna con un profilo pubblico così forte certamente hanno avuto e avranno un impatto rilevante e potranno contribuire a infrangere il muro di pregiudizi e di cattivi giudizi che ancora gravano sul cancro.

E allora grazie ad Anna prima, a Michela poi, per avermi insegnato che si può parlare della propria vita e della propria morte con la stessa, faticosissima, libertà.

Il lato oscuro della maternità

Quando sento di quello che può accadere quando una donna, appena diventata madre, viene lasciata sola dopo un parto traumatico (sì, spiace dirlo, ma il parto può essere un trauma) o durante un post-partum che per svariate ragioni, chimiche, psicologiche, culturali, può trasformarsi in depressione, ritorno inevitabilmente alla mia esperienza.

Gravidanza meravigliosa, preparazione al parto tutta incentrata su training autogeno, yoga, respirazione, capacità di controllare le contrazioni, una sorta di allenamento a scodellare neonati, come se la questione fosse tutta lì, tirar fuori l’essere che hai tenuto nella pancia per nove mesi e poi fare di tutto per allattarlo al seno, il prima possibile, il più a lungo possibile.

Ma no, l’epidurale non serve, quella meravigliosa esperienza deve essere vissuta naturalmente, come fanno gli animali, come le donne hanno sempre fatto. Partorirai con dolore. Ma no, il dolore si controlla, soprattutto se ti sei allenata bene. E poi, che succede se non senti le contrazioni? Se non collabori? No no, meglio lasciar perdere l’epidurale.

Primo grave, gravissimo errore. Avrei potuto avere un parto senza dolore, e senza quel dolore che non è più inevitabile, anche quello dell’anima forse non sarebbe arrivato.

Poi arriva il momento fatidico, le contrazioni che iniziano di notte, due giorni allo scadere del termine. Io e Sten contiamo gli intervalli e decidiamo di andare in ospedale.

No, troppo presto, tornate a casa, prendi un Buscopan e cerca di riposare.

Macchè, tutta la notte sveglia, e quando la mattina torniamo in ospedale devo impuntarmi per farmi ricoverare.

Ho una stanza tutta per me, con le foto di Anna Geddes, e all’ora di pranzo decidono di darmi un po’ di ossitocina, si rompono le acque e finalmente inizia il vero travaglio, con le contrazioni che si susseguono senza tregua, l’utero che si dilata, e tutto per fortuna dura molto poco. Il tragitto in sala parto, a piedi, sostenuta da Sten e da un’ostetrica, ha pure del comico. Ma i venti minuti di spinte in sala parto li ricordo ancora per le mie urla e il mio dolore, cessati nell’istante in cui Lula è sgusciata fuori, e allora, sì, allora è iniziata l’altra fase, quella dell’emozione unica di vedere mia figlia appena nata. Guardarla negli occhi, avvolta nel panno verde, e piangere di felicità.

Le difficoltà sono iniziate a casa, con i pianti da interpretare, le poppate notturne, il primo bagnetto disastroso, le paure, il senso di inadeguatezza, la mente che iniziava a vorticare verso un abisso di insensatezza, il seno svuotato dall’ansia. Niente più latte, niente più lacrime, ma nemmeno sorrisi.

Nei momenti più bui, dopo una notte insonne, il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.

Da quella profonda depressione post-partum sono uscita in fretta grazie alle premure di chi mi era accanto, consapevole che avevo bisogno di aiuto. E grazie al bravo psico, che mi ha curata e compresa. E grazie, soprattutto, a Lula, a cui da quell’abisso sentivo di dover tornare.

Ma nei momenti bui il pensiero di essere altrove attraversava il cuore, come una stilettata.

Per tanto tempo mi ha accompagnato un senso di colpa per aver vissuto così i primi due mesi di vita di Lula. E immagino che si sentano allo stesso modo le madri che faticano a diventare tali, che annaspano e scivolano verso quel buco da cui non ci si può tirar fuori da sole.

Per tanto tempo ho desiderato un’altra maternità anche per poter riscattare quei due mesi “sbagliati”, sicura che sarebbe stato tutto più facile. La vita ha deciso altrimenti.

Bisogna capire una madre che non riesce ad esserlo, senza colpevolizzarla, e guai a non rispondere alle sue richieste di aiuto, anche solo per farla riposare un po’, per darle il tempo di ritrovarsi.

Compleanni e cicatrici – 12 gennaio

Oggi (ieri ormai) ho festeggiato i novant’anni di mia suocera e i diciassette della mia cicatrice ombelico-sterno risultato dell’asportazione delle metastasi epatiche. E pure i settantuno del mio ex psicoterapeuta, che ha curato la mia mente quando la depressione post-partum l’aveva avvolta in una nebbia fitta di angoscia.

Ho avuto cura di questa cicatrice fin dall’inizio, le ho voluto bene, mentre lo sbrego del seno, sei anni prima, l’ho detestato perché era davvero orrendo, e ha avuto bisogno di interventi migliorativi, fino ai lipofilling risolutivi e benedetti. Rappresentava la parziale mutilazione di una parte del mio corpo che amavo molto e che non riconoscevo più.

Ora invece amo anche quel capolavoro fatto dai chirurghi plastici per restituirmi almeno un po’ di quanto mi era stato tolto.

Ma questa che festeggio oggi, lunga e sottilissima, continuo a vederla come il segno di una liberazione dal mio male, il segno della guarigione e della vita che ricomincia. Non posso che amarla.

Disinibita

Ero convinta, fino a ieri, che il farmaco che inibisce la produzione di estrogeni a cui era particolarmente sensibile il tipo di cancro che ho avuto e riavuto, dovesse accompagnarmi per tutta la vita, più o meno.

Avevo pure smesso di chiedere al dottor Zeta se potessi interromperlo, e ora che è andato in pensione lo avevo interpellato solo per capire se dovessi modificare qualcosa nei controlli periodici, allungare un po’ i tempi, tagliare qualche esame radiologico, quando verificare se la recente interruzione della puntura trimestrale per indurre la menopausa sia stata corretta, perché ormai dovrebbe essere arrivata per conto suo. Così mi ha proposto di vederci per parlarne. Perché, nonostante sia in pensione, Zeta resta e resterà il mio punto di riferimento, ormai anche un amico a cui chiedere consigli, a cui affidarsi.

E la grande, inattesa notizia è arrivata subito: è ora di togliere tutto, mi ha detto. Gli ultimi studi provano che inibire l’aromatasi (l’enzima che trasforma androgeni in estrogeni) per un periodo molto lungo può provocare danni cardiaci, e visto che “sono guarita” e libera dalla malattia da oltre quattordici anni, non ha senso continuare.

Non solo, a parte un’ultima eco epatica da fare a breve, poi i miei controlli saranno in realtà come quelli di tutte le donne che fanno normale prevenzione.

E gli estrogeni nuovamente liberi dovrebbero avere un effetto di benessere generale, che forse nemmeno ero più consapevole di aver ridotto in tutti questi anni. Sì, certo, colesterolo aumentato, ossa più fragili, e tutti gli annessi e connessi legati alla menopausa anticipata. Però ero stata bravina a farmene una ragione, a non rompere le scatole più di tanto.

“Devi brindare,” ha concluso.

Ho brindato, abbiamo brindato.

Complessivamente quasi vent’anni della mia vita li ho passati sotto stretto controllo medico e farmacologico. Sarà anche per questo che non mi sono sognata di mettere in discussione le indicazioni medico scientifiche sul COVID, in particolare sulla necessità di vaccinarsi. Per me è scontato affidarmi alla medicina, integrandola con tutto quello che può farmi bene senza interferire con le cure.

“Quando attraversi un ponte non vai a mettere in discussione i calcoli dell’ingegnere che l’ha costruito, no?” mi ha detto Zeta parlando dei deliri no-vax, e di quello che ha visto nel periodo più buio, quando il vaccino non c’era.

Rispettare le competenze, affidarsi con consapevolezza e anche, perché no, con fiducia.

Grazie a Zeta per me è stato facile, ma non bisogna per forza ammalarsi di brutto per capirlo.

Adesso mi sento un po’ più libera, sempre grata alla vita, a Zeta, alle buone cure, e al mio vecchio blog cui affido ancora un’altra tappa importante del mio cammino.

Covid e prevenzione

Ho pensato spesso, e in questi giorni più di altre volte, a come sarebbero cambiate le cose per me se quindici anni fa ci fosse stata una pandemia di queste proporzioni in corso.

Se fossi stata costretta a rimandare la mia ecografia epatica di controllo, visto che in fondo dopo sei anni da una diagnosi di cancro al seno si pensa di essere fuori pericolo, e che sarà mai, meglio rimandare, meglio evitare di andare in ospedale.

Non è sufficientemente chiaro alle persone cosa significa “stressare il sistema sanitario”, non è sufficientemente chiaro cosa significa quando si ritardano o si interrompono i controlli sulle famose “patologie pregresse” e non c’è nessuno ad avvisarti, per esempio, che il cancro è ricicciato, che sono comparse metastasi, quella brutta parola che non vorresti mai sentire, figurarci scoprire che hanno iniziato a riprodursi nel tuo corpo.

Le diagnosi precoci salvano la vita. Se le diagnosi non vengono fatte, perché gli ospedali sono pieni, perché si ha paura di andare a fare dei controlli per paura di contagiarsi, i rischi di non salvarsi aumentano. Lo hanno gridato gli oncologi di tutto il mondo in questi mesi. Lo stanno dicendo nei congressi, lo scrivono, segnalando che con la pandemia, con i morti per Covid, sono diminuiti gli screening e aumentati i decessi. E lo stesso accade per altre malattie che bisogna poter curare o tenere sotto controllo.

Il Covid è anche questo: fa del male non solo a chi se lo prende, ma a tutte le persone che hanno bisogno di curarsi.

E allora basta, basta con le polemiche, con le minimizzazioni, con il cinismo sugli anziani che se muoiono non è poi così grave, con gli sproloqui sulla “dittatura sanitaria”.

Intollerabile è avere venti diversi livelli di assistenza sanitaria nello stesso Paese. Quando tutto questo sarà finito, ricordiamocelo. Non era accettabile prima del Covid – quante persone ho incontrato, pendolari della salute, in viaggio da una Regione a un’altra per fare esami e ricevere cure adeguate – lo è, drammaticamente, oggi.

Scriverne?

Mentre sfogliavo un blocco per appunti che ogni tanto utilizzo per scrivere a mano – un’abitudine che non ho perso, perché utilizzando carta e penna mi sembra che i pensieri fluiscano in modo più limpido – ho ritrovato gli appunti presi per la presentazione di Scriverne fa bene a Modena.

“La tesi del libro è che attraverso la narrazione di sé chi si ammala trova la voce giusta per descrivere l’esperienza vissuta, ritrovare l’orientamento e tracciare una nuova rotta per uscire dal naufragio.”

“La parola è un filtro che permette di esibire le proprie ferite e fragilità senza scandalo o vergogna. La parola mi protegge e mi apre al mondo. Per questo scriverne fa bene. Soprattutto attraverso un blog, in rete, in tempo reale.”

La notte prima di questo ritrovamento avevo sognato che il cancro tornava, e che il dottor Zeta, ormai in pensione (che è vero, ma per l’emergenza Covid ha ricominciato a lavorare) stavolta mi avrebbe affidato a un suo collega.

Non ero troppo spaventata, anche perché Zeta mi spiegava che la prognosi era positiva grazie al fatto che mio padre aveva avuto lo stesso tipo di patologia, e nel sogno era ancora vivo. Evidentemente ho mescolato la possibile ereditarietà di una malattia oncologica con l’immunità che si sviluppa contraendo un virus.

Non so perché sto mettendo insieme queste due cose: la funzione delle parole, e le paure che abitano i miei sogni.

Certamente in questo periodo in cui mai si è parlato e scritto così tanto di malattia, salute, cure, guarigioni, ospedali, servizio sanitario pubblico, è inevitabile per me confrontare le due condizioni, quella del cancro, che conosco, e quella di una pandemia che sta sconvolgendo e ha sconvolto il mondo intero.

Anche in questo caso le parole, la scrittura, la narrazione, potranno aiutare chi si è ammalato ad attraversare la tempesta e ridisegnare la mappa per orientare una nuova esistenza?

Un mese

Un mese fa ci siamo chiusi in casa, chi ha potuto ha iniziato a lavorare da casa, chi ha dovuto ha chiuso negozi, interrotto ogni genere di attività che non fosse tra quelle considerate necessarie e essenziali.

Abbiamo iniziato a prendere le distanze, evitare i contatti, indossare mascherine, ricostruire le nostre esistenze negli spazi domestici e nei tragitti obbligati di spostamenti consentiti: spesa, lavoro, assistenza a persone più fragili, come i genitori anziani.

La vita sociale, in tutti i suoi aspetti, da quelli lavorativi a quelli educativi, culturali e ricreativi si svolge in rete. Dalla lezione di scuola, a quella universitaria, dalle riunioni, alle lezioni di yoga, allenamenti, film, serie tv, informazione, visite virtuali a mostre e musei, aperitivi virtuali, videochiamate, singole e di gruppo. E meno male che ce l’abbiamo questa benedetta rete, a cui ci teniamo aggrappati per non affondare nei momenti più duri.

Difficile vivere nel silenzio e nell’isolamento, le pile di libri da leggere attendono la consueta ora serale, e sono rari i momenti di sconnessione.

Non uscire non solo è diventato un obbligo, ma quando si è costretti a compiere quelle attività consentite nelle quali entriamo in contatto con altre persone e mettiamo il naso fuori di casa si sta malissimo. Mascherina, guanti, avvicinamenti pericolosi, lavaggi frenetici, scaffali vuoti, lievito e farina, lievito e farina, tutti a fare il pane e la pizza, le doppie liste della spesa divise in modo scientifico, i soliti irrispettosi che arrivano in coppia e non rispettano le distanze, le polemiche per chi si sfoga correndo per la strada e portando cento volte il cane a pisciare, l’emozione di andare a buttare la spazzatura e fare il giro lungo per tornare, la strada vuota, che bello, non devi stare attenta, e però il portone ormai si apre sempre col gomito.

Una mattina, mentre lavoravo in giardino, ho visto passare un’ambulanza, e rallentare poco più avanti.

Un paio di giorni prima avevo saputo che una persona che conosco, vicina di casa, era in quarantena con tutta la famiglia perché si era ammalata.

Ho scritto subito alla moglie, in preda a un brutto presentimento. “Come va?”

“Ricoverato,” mi ha risposto lei. “Polmonite.”

Abbiamo cenato insieme, un paio di mesi fa. Forse abbiamo anche parlato di questo virus che iniziava a circolare anche in Italia. Nessuno di noi era particolarmente preoccupato.

Un’altra vicina, coperta dalla mascherina che in genere non indossava quando portava fuori il cane, mi ha detto che nella strada ci sono sicuramente altre due persone positive al virus. Una strada a senso unico, non di passaggio perché non porta da nessuna parte, se non nei palazzi di chi ci abita. Piuttosto tranquilla, prima come ora. Ora di più.

Ora si sente che viviamo un tempo sospeso, scandito dall’attesa che il contagio rallenti, rallenti, che i malati guariscano presto, che non si muoia più, che arrivi presto il vaccino, che si possa tornare un po’ per volta a fare una vita quasi normale, che non sarà la stessa, no, certo, sarà tutto diverso, ma sarà bello uscire e stare di nuovo insieme, in modo diverso forse, con i cocci da riattaccare e qualcosa di buono di cui fare tesoro per il futuro.

E come ha scritto un blogger guarito dal Covid, ricordiamoci sempre che “la sanità pubblica è una meraviglia” e chi evade le tasse è complice di un posto in rianimazione in meno.

Il muro

Immaginavo che in questo periodo avrei scritto moltissimo.

Invece no.

Il tempo sembra ancora più limitato, costretto e scandito dallo spazio dell’isolamento, riempito da una routine anomala, per alcuni più faticosa, per me più accettabile. Immagino perché vivo con altre due persone che amo, in una casa spaziosa con un piccolo giardino, da cui posso continuare a lavorare. A cinque minuti a piedi vive mia madre, che piange ogni giorno perché ancora di più di questi tempi sente la mancanza di mio padre, e perché, mi ha detto oggi, vede la sua vita fermata da un muro. Poi si riprende, capisce che la sua condizione è più fortunata di quella di molti altri.

Ma capisco che per le persone anziane questo momento è particolarmente nero, perché se noi possiamo immaginare un mondo diverso, migliore, da costruire fin d’ora e per quando l’emergenza sarà finita, per loro è più difficile guardare oltre quel muro e attraversarlo.

 

 

 

 

 

 

Io resto a casa, noi restiamo a casa, e insieme resistiamo

Ieri ho iniziato a lavorare da casa visto che il lavoro agile (versione italiana dello smart working) è diventata, in questa fase di lotta al Covid-19, la modalità ordinaria in cui svolgere il rapporto di lavoro nella pubblica amministrazione e la biblioteca è chiusa al pubblico da lunedì scorso. A parte una bella scorta di libri, la maggior parte di quello che mi serve è accessibile in formato digitale, e poi non è stato difficile proporre altri progetti da realizzare a distanza. Un bel test per una nuova organizzazione del lavoro che anche in assenza di emergenze sanitarie può aiutare i risolvere problemi di mobilità, inquinamento, gestione familiare, stress.

Come prima giornata è stata faticosa, quasi più impegnativa dei giorni precedenti, tra grandi pulizie (anche l’aiuto domestico è stato sospeso), frenetici scambi di mail e messaggi con l’ufficio per trasformare i tre giorni previsti nell’intera settimana, un pochino di lavoro, spesa (una delle attività più complicate e stressanti di questi tempi) per di più senza carrello – perché? Boh, pensavo di prendere qualcosa per noi e qualcosa per mia madre, ma alla fine un po’ di sindrome ti prende, non tanto per il timore che finiscano le scorte, ma per allontanare il giorno in cui doversi sottoporre nuovamente a quello stress – breve visita alla mamma e consegna della sua spesa, nel frattempo una fame della miseria, credevo di aver fatto la furbata andando all’ora di pranzo, ma che, Lula poveretta mi aveva aspettata, e intanto si cimentava in prove di cucina che a cena si sono rivelate una deliziosa lasagna al pistacchio, mortadella e provola, noi due però abbiamo mangiato alle  quattro del pomeriggio, più o meno. Sten invece lavorava ancora, ma quando è tornato, dopo gli opportuni lavaggi, è stato il momento del flash mob musicale, io flauto, Sten chitarra, Lula pentola e tamburello salentino. Bello, emozionante, l’inno di Mameli che risuonava dal palazzo di fronte, e per la prima volta mi ha commosso, e poi gli applausi, dalle finestre, dai balconi, noi dal giardino, dai passeggiatori con cani, i saluti, i bambini che chiedevano di farlo ancora: cantare, applaudire, salutarci. E oggi di nuovo, a mezzogiorno, neanche il tempo di affacciarmi e l’applauso e scattato, ancora più fragoroso e convinto. L’applauso per i medici e gli infermieri, i portantini, i volontari, tutti quelli che non si possono fermare, quelli che ci permettono di stare a casa e di poter presto uscire di nuovo, e ricominciare a toccarci, baciarci, abbracciarci, sfiorarci per strada senza paura.

Tra un po’ si ripete, alle 18 tutti fuori a cantare Azzurro anche se invece oggi il cielo e grigio e l’estate sembra davvero molto lontana.

C’è chi ironizza su questi gesti collettivi, ma sentirci più vicini nella distanza obbligata e nell’isolamento può solo fare bene.

La vita ai tempi del Covid-19

Nessuno di noi immaginava che in poco tempo ci saremmo trovati a vivere una situazione così estrema, un’epidemia da fronteggiare con misure drastiche che limitano fortemente le nostre libertà e cambiano radicalmente il nostro modo di vivere. Le città improvvisamente si svuotano, i corpi si allontanano, le abitudini cedono il passo a nuovi comportamenti che diventano tali dopo essere stati suggeriti, consigliati, infine imposti per legge. Il nemico invisibile si diffonde, dilaga, e ci costringe brutalmente a fare i conti con la parola contagio.

Fino a un paio di settimane fa mi rivolgevo infastidita a chi si mostrava spaventato: “ho avuto il cancro, le metastasi, quelle sì che mi facevano paura.” Come se non ci fosse una drammatica relazione tra questo virus e le altre malattie, non contagiose, proprio come il cancro.

Ora è tutto cambiato, l’epidemia proprio oggi è stata dichiarata pandemia, la velocità di trasmissione ha costretto il governo a prendere misure drastiche, sono tornata da una settimana di vacanza in montagna appena in tempo, piena di preoccupazioni e sensi di colpa. E mi sono ricordata di quando, in piena chemio e con le difese immunitarie quasi a zero mi ero dovuta ricoverare in ospedale perché avevo la febbre, che non scendeva.

Penso a tutte le persone che sono ora sotto chemio, e rischiano, rischiano moltissimo. In alcuni casi si sta consigliando di sospendere le terapie. Sapete cosa significa quando per qualche ragione sei costretta a saltare un ciclo di chemio? Che ti viene una paura ancora più fottuta, perché stai interrompendo la cura che ti salva la vita. E non vedi l’ora di poterla fare, aspetti i risultati dell’emocromo di controllo che ti dica, in sostanza “va bene, i globuli bianchi sono risaliti, si può ricominciare a bombardare il bastardo.”

E poi c’è il problema della terapia intensiva, i posti che rischiano di non esserci più, non solo per i malati di Covid-19 ma pure per tutti quelli che per molte altre ragioni hanno bisogno di essere attaccati a un respiratore, per esempio. Anche solo per morire senza sofferenza.

Penso alle persone anziane che rischiano pure moltissimo, e poco fa, quando sono passata a salutare mia madre e a portarle qualcosa di cui aveva bisogno mi è salito un groppo alla gola mentre m’infilavo i guanti monouso per trafficare con il suo tablet per spiegarle come usare Facebook, lontana un metro da lei, e sfuggendo ai suoi avvicinamenti involontari. Perché lei ancora non ha imparato, come molti di noi, a vivere a un metro di distanza dagli altri, toccare le maniglie con un fazzoletto, con la manica di un maglione, a lavare ‘ste cazzo di mani in continuazione. Lei non vede i ragazzi del bar con le mascherine, il metro attaccato al bancone, il dispenser di amuchina (no, l’amuchina è diventata oro, gel disinfettante fatto in casa), la città deserta, i negozi chiusi. Lei resta a casa, prende aria in giardino, per fortuna ce l’ha, e si dispera per noi. “Be’, sembra proprio come quando c’era la guerra,” mi ha detto. No, per fortuna non è come la guerra. Non c’è nessuno che volontariamente abbia provocato tutto questo. Non è una guerra, ma un’emergenza sanitaria.

Il lato positivo è che da tutta questa storia, dalla quarantena, questo isolamento forzato che deve aiutare a rallentare e poi fermare il contagio, le persone riescono a tirare fuori anche tanta creatività: Lula e altre 9 amiche e amici hanno organizzato un Decameron 2.0, ognuno rappresenta un personaggio di Boccaccio e nel corso delle dieci giornate previste registra un video dove racconta una delle novelle rivisitate in chiave moderna, che viene pubblicato sui social (Facebook e Instagram)

e fatta lor brigata, da ogni lato separati viveano

 


Come una funambola

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