“…Nei limiti della sua alta carica confido che lei intervenga, come garante, in quanto lei essendo anche Capo del Consiglio Superiore della Magistratura, nei confronti dei giudici che mi hanno messo in questa triste situazione. Lei sa più di me che anche i giudici commettono molti errori e non c’è nella vita errore più grande di tenere in galera uno innocente.”
(Dalla lettera di Egidio Carcongiu al Presidente della Repubblica, 8/9/1995 pubblicata in: Quel crocevia maledetto, Velio Lobina e Giuseppina Nonnis, Editrice S’Alvure, 2005.)
Rosa non faceva più molto caso alle persone strane che entravano in biblioteca. Soprattutto se queste non venivano a tormentarla con richieste assurde, ma sparivano tra gli scaffali delle sale di lettura e ricomparivano prima della chiusura senza creare problemi.
Talvolta invece era costretta a sorbirsi la puntigliosa esposizione di un caso legale e nonostante provasse a spiegare che lei non si era laureata in legge e che quindi era inutile entrare nel merito della questione, il tizio ossessivo non cedeva, pretendeva risposte, soluzioni, pareri. E per convincerlo a desistere doveva, con garbo, fargli notare che altre persone aspettavano per chiedere informazioni. Bibliografiche, non legali.
Quel giorno, quindi, non aveva prestato attenzione all’uomo basso, tarchiato, con una montatura di occhiali antiquata e un completo gessato orribile. Non l’aveva notato finché questi non ebbe estratto dalla tasca interna della giacca una pistola e non l’ebbe puntata alla gola della ragazza che, seduta accanto a lui, stava consultando il catalogo on line della biblioteca. In un attimo si era scatenato il panico: tutti urlavano, qualcuno s’era nascosto sotto i tavoli, altri erano riusciti a scappare nella sala di lettura e accucciati tra gli scaffali si erano attaccati inutilmente ai cellulari, che non prendevano.
Il turno di Rosa era finito, ma voleva concludere la ricerca per il giovane professore, quello carino che stava scrivendo un libro sul diritto islamico. Così era rimasta impietrita, incerta se tentare di strisciare di un metro o due verso la porta che le avrebbe permesso di uscire dalla biblioteca, oppure assistere inerme al precipitare degli eventi.
Cosa vorrà? Mica siamo in banca qui. Si chiese prima che l’uomo cominciasse a inveire minacciando di compiere una strage.
“Forse lo capiranno adesso che lui non c’entra niente! NIENTE! E ci lasceranno in pace! Bastardi! Maledetti! Ora vi faccio vedere io che succede quando un onesto cittadino viene esasperato dalla giustizia! E quale giustizia? Quale? Me lo sai dire tu? Eh? Me lo sai dire?”
La ragazza singhiozzava atterrita, le corde vocali annodate dalla paura. E non aveva nemmeno la forza di dire che c’entro io? Sono qui per fare la tesi e se farò l’avvocato un giorno potrò aiutarla, signore. Macché, la ragazza piangeva a dirotto e neanche si rendeva conto che la canna della pistola era così leggera che non poteva essere vera.
Rosa invece ci pensò, forse quella pistola non è vera, come avrebbe potuto attraversare il metal detector all’entrata? Però se lavora qui, nel palazzo, passando dall’entrata per i dipendenti è sfuggito ai controlli. Oppure ha tramortito il carabiniere che piantona l’ingresso. Forse c’è già stata una carneficina, e noi non ci siamo accorti di niente, qui, tra i libri…
“Ehi, tu!” Il tipo la distolse da quella ipotesi tragica trascinandola nella realtà delirante dell’uomo armato che minacciava morte. “Sei il capo? Eh? Sei tu che comandi qui dentro?”
“Ma no, guardi, io sono una bibliotecaria, il direttore non c’è. Ma la prego, non…”
“Zitta! Lavori qui no? Allora telefona al Presidente. Subito!”
“Quale Presidente, scusi?” La voce le uscì stridula, isterica.
“Come quale Presidente? Quello della Repubblica. Mi è rimasto solo lui. Svelta, chiamalo che sennò vi ammazzo tutti. E chiudi là dietro!” Ordinò indicando le porte alle spalle di Rosa, da cui qualcuno, all’inizio, si era affacciato per capire cosa stesse succedendo.
Rosa si alzò, ed ebbe la sensazione che nell’atrio ci fosse un silenzio irreale, fatto di gente col fiato sospeso.
Ritornò al suo posto, dietro alla scrivania, e alzò la cornetta.
“A chi telefoni?” urlò agitato l’uomo.
“Mi ha chiesto lei di chiamare il Presidente. Provo a farmelo passare dal centralino.” Si giustificò Rosa, spaventata.
“Ah, sì.”
Mentre pigiava i quattro tasti le tremava la mano, e cercò di raccogliere dentro di sé un po’ di coraggio. Dopo un numero eccessivo di squilli a vuoto finalmente il centralinista biascicò un “Cassazione dicaaaa?”
“Chiamo dalla biblioteca. Qui c’è una persona, armata, che vorrebbe parlare con il Presidente della Repubblica.”
“Brava! Diglielo che ammazzo tutti!” La incoraggiò l’uomo.
“Eeeh? Che sta a scherzà?” Domandò con fastidio distratto il centralinista.
“No. Il signore minaccia di uccidere tutti, dovrebbe chiamare il Quirinale. Urgentemente.”
Rosa manteneva quel tono stridulo, però ascoltando se stessa si compiacque. Aveva conservato un certo sangue freddo.
“Che devo fa’ insomma, chiamo i carabinieri?” Sussurrò l’uomo del centralino, preoccupato.
“Sì, certo. Naturalmente appena riesce a contattarlo ci chiama qui. Il signor…” s’interruppe cercando di sfoderare un bel sorriso all’uomo. “Come si chiama, signore?”
“De Vincenti Gaetano. Figlio di De Vincenti Giuseppe. Un innocente!” E agitò la pistola in aria, continuando a gridare. “Lui non c’entra niente! Capito? Non ne posso più! Io sparo davvero, adesso, se non mi danno retta.”
“Oh Madonna!” Urlò il centralinista “questo fa sul serio.”
“Sì, direi di sì. Allora aspetto che mi richiama?”
“Sì, sì. Ci penso io. Non si preoccupi.” Il centralinista aveva assunto un tono e un linguaggio diversi, forse per la prima volta in vent’anni di lavoro avvertì una scarica di adrenalina. Quell’unica telefonata costituiva il glorioso riscatto di una professione. Dopo migliaia di “attendaaa”, finalmente aveva un compito delicato: avvertire le forze dell’ordine, rintracciare il Presidente della Repubblica (ma doveva rintracciarlo davvero o no?), richiamare la povera bibliotecaria e salvare quella gente in balìa di un pazzo.
Quando Rosa attaccò, Gaetano De Vincenti smise di minacciare la gola della ragazza e ordinò a chi si era rifugiato sotto ai tavoli di mettersi a sedere. C’erano un paio di studenti, un magistrato, e un anziano avvocato che sembrava più morto che vivo. Poi l’uomo si affacciò nell’altra sala e cominciò a urlare che se non si fossero presentati tutti immediatamente avrebbe iniziato a sparare.
Era quasi l’ora di chiusura, non c’era un grande affollamento. Forse qualcuno aveva rischiato ed era rimasto nascosto tra i libri del piano superiore. Comparvero una decina di persone, compresa la bibliotecaria del prestito. Rosa le fece un mezzo sorriso e dopo aver dato uno sguardo veloce in alto, capì che Simone si doveva essere nascosto nella stanzetta del ballatoio di sinistra.
Squillò il telefono, ma lei esitò. “Devo rispondere io?” chiese timidamente.
“Sì, sì. Rispondi. Io parlo solo col Presidente.”
Rosa allora rispose con un “pronto” insicuro, aveva sperato di potersi liberare di quel ruolo scomodo in fretta.
“Sono il commissario Pugliatti, lei è la dottoressa Salvini?” gracchiò una voce roca da fumatore accanito.
“Sono io.”
“Può dirmi com’è la situazione? State tutti bene?”
“Direi di sì.”
“Allora? Non è lui?” si agitò Gaetano.
“Mi stia a sentire. Cercate di assecondarlo, non credo che abbia intenzione di farvi del male. Ma è un uomo esasperato, non possiamo rischiare…”
“Infatti. Il signor De Vincenti deve assolutamente parlare con il Presidente. Parlerà solo con lui.” Cercò di essere convincente, Rosa.
“Sì. Il Presidente è stato avvisato. Tra poco chiamerà, ha deciso di intervenire personalmente per risolvere questa brutta storia. Anche se forse avremmo potuto aspettare un po’…”
“Bene”, sospirò quasi Rosa, “allora aspettiamo. Arrivederci.”
“Arrivederci, stia tranquilla, se può. E cerchi di rassicurare anche gli altri. Ah, dimenticavo, quanti siete lì dentro?”
“Undici, credo.”
“Potrebbe esserci qualcuno nascosto?”
“Sì.”
“Ho capito.” Il commissario sospirò. “Speriamo che nessuno faccia sciocchezze.”
“Già. La saluto.”
Gaetano aveva seguito la conversazione tra Rosa e il commissario Pugliatti senza intervenire, pensava che finalmente dopo quindici anni stava per ottenere qualcosa.
“Ma lo sapete chi sono?” domandò ai poveracci che teneva in ostaggio.
“Sì” rispose subito il magistrato Varano, un consigliere della Corte di Cassazione frequentatore assiduo della biblioteca, “lei è il figlio di quel De Vincenti, condannato all’ergastolo per l’omicidio Restaldi. E anche lei, se non sbaglio, è finito in carcere per falsa testimonianza….”
“Bravo! Mi sono fatto due anni di galera solo perché ho detto tutta la verità su quella notte maledetta. Mio padre non ha ammazzato Restaldi, stava con me. E poi erano buoni amici, perché avrebbe dovuto?”
Poi, improvvisamente, fece una smorfia di sospetto: “e che ne sai tu? Sei un giudice? Magari sei uno di quelli che ci ha condannato…” si avvicinò al magistrato brandendo l’arma.
“Sono un giudice. Ma ero uno dei pochi convinti che quello fosse un gravissimo errore giudiziario. E’ ingiusto che suo padre stia in galera, lei ha ragione. Però…”
Gaetano lo interruppe: “mio padre ci sta morendo, in galera! E ieri la Cassazione ci ha messo una pietra sopra, sulla mia istanza di revisione del processo… Il processo non si rifarà, e la nostra vita è distrutta. Mia madre è quasi impazzita, mia moglie se n’è andata con i bambini. Non li vedo più da anni. Lo capisce, eh, signor giudice? E voi, lo capite che significa tutto questo?”
Il silenzio stava cambiando segno, e la paura faceva strada alla compassione per quell’ometto disperato.
Rosa ripensò a quell’illustre vittima di errore giudiziario, che dopo anni e anni di battaglie e sofferenze, non aveva mai smesso di pretendere giustizia, rifiutandosi di chiedere la grazia.
Finalmente il telefono squillò. Questa volta Rosa rispose senza pensarci, e con un “pronto” più sicuro.
Era il centralinista, emozionatissimo: “Le passo il Presidente della Repubblica.”
“Chiamo subito il signor De Vincenti” si affrettò a dire Rosa.
“No, prima vuole parlare con lei. Attenda, prego.” Gli sfuggì la solita formula.
Partì una musichetta e un attimo dopo Rosa riconobbe la voce inconfondibile dell’anziano Capo dello Stato: “Dottoressa Salvini?”
“Sì, buongiorn… Buonasera Presidente.” Rispose impappinandosi un poco.
Gaetano le strappò la cornetta dalle mani, e nell’agitazione posò la pistola sul tavolo. Rosa si accorse che il magistrato Varano e uno degli studenti la guardavano strabuzzando gli occhi, incoraggiandola a fare quello che, conoscendosi, le sarebbe riuscito impossibile: prendere la pistola e puntarla contro il De Vincenti, oppure scappare via. Comunque disarmarlo. L’occasione era unica, perché lui parlava, parlava, era quasi in lacrime, dell’arma si era completamente dimenticato. Rosa posò gli occhi sull’oggetto nero, e da vicino nemmeno un bambino si sarebbe lasciato ingannare: era proprio una pistola giocattolo, di quelle che si vincono alle feste di paese. Era anche rotta, crepata proprio all’altezza dell’impugnatura.
Scambiò un breve cenno d’intesa con Varano e afferrò il giochino, un pezzo di plastica leggerissimo. Poi aprì la porta e si precipitò fuori urlando: “è un giocattolo! Guardate, è solo un giocattolo!” Si trovò di fronte uno schieramento di forze dell’ordine in assetto di guerra, così si gettò tra le braccia dell’unica persona in borghese. “Sono il commissario Pugliatti” fece lui. “E io Rosa Salvini. Ora potete entrare…” Gli consegnò la finta pistola, che il commissario esaminò con un sorriso amaro. “Pensi che Giuseppe De Vincenti, appena saputo quello che stava combinando il figlio, ha deciso di confessare. Era proprio lui l’assassino di Restaldi. E ‘sto poraccio s’è fatto la galera, e se la rifarà pure, convinto dell’innocenza di suo padre.”
“Ma…” (dio, come ci restò male, Rosa!), “sembrava che ci credesse davvero, come se quella sera l’avessero trascorsa insieme sul serio. Perché?”
“Chissà” bofonchiò Pugliatti, “l’amore di un figlio…”
Gaetano De Vincenti nel frattempo era rimasto al telefono, piangeva, e ripeteva al Presidente: “mio padre è una vittima innocente… Che altro potevo fare? Lei deve aiutarmi, Presidente.”
Vicino a lui erano rimasti solo il consigliere Varano e il vecchio avvocato, penalista in pensione. Ancora non lo sapevano di aver sposato una causa irrimediabilmente persa.
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