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Compleanni e cicatrici – 12 gennaio

Oggi (ieri ormai) ho festeggiato i novant’anni di mia suocera e i diciassette della mia cicatrice ombelico-sterno risultato dell’asportazione delle metastasi epatiche. E pure i settantuno del mio ex psicoterapeuta, che ha curato la mia mente quando la depressione post-partum l’aveva avvolta in una nebbia fitta di angoscia.

Ho avuto cura di questa cicatrice fin dall’inizio, le ho voluto bene, mentre lo sbrego del seno, sei anni prima, l’ho detestato perché era davvero orrendo, e ha avuto bisogno di interventi migliorativi, fino ai lipofilling risolutivi e benedetti. Rappresentava la parziale mutilazione di una parte del mio corpo che amavo molto e che non riconoscevo più.

Ora invece amo anche quel capolavoro fatto dai chirurghi plastici per restituirmi almeno un po’ di quanto mi era stato tolto.

Ma questa che festeggio oggi, lunga e sottilissima, continuo a vederla come il segno di una liberazione dal mio male, il segno della guarigione e della vita che ricomincia. Non posso che amarla.

9 novembre 1999

Come ogni anno quando arriva il 9 novembre non posso fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, ripensando a quella data piena di 9 che costituì uno spartiacque fondamentale nella mia vita: il giorno in cui ho saputo di avere il cancro, anzi, il giorno in cui mi è stato tolto il cancro, insieme a quel pezzo di tetta che lo conteneva.

Un anno in più, anche se poi il contatore è ripartito quando ho scoperto che dopo sei anni le cellule cattive si erano ringalluzzite, e tutta la faccenda è raccontata qui, in questo blog che si è preso cura di me con splendidi risultati.

Ogni anno, quando arriva questa data, non dimentico di fare gli auguri di compleanno al dottor Zeta, che sottolineò fin dalla prima visita che la coincidenza sarebbe stata di buon auspicio, e faccio gli auguri a me stessa per questa ricorrenza speciale.

Pochi giorni fa una bella persona che conoscevo da molto tempo, ma a cui mi ero avvicinata solo negli ultimi mesi, è morta per un cancro al seno molto più cattivo del mio. Facevamo lunghe chiacchierate al telefono, ci scambiavamo messaggi, e l’unica volta che sono potuta andare a trovarla ho capito che non avrebbe avuto molto tempo. E lo sapeva anche lei. Però non smetteva di sorridere, e di interessarsi alle faccende per le quali avevo chiesto i suoi consigli.

Ecco, anche per questo non devo dimenticarmi di ricordare questa data, quel giorno doloroso e salvifico di ventitré anni fa.

Vent’anni di funambolismo

Sono venti.

Vent’anni dall’intervento chirurgico con cui mi è stato tolto un nodulo sospetto al seno, che poi quel giorno, sotto i ferri, si è rivelato essere cancro.

Due decenni, quasi l’intera vita di Lula, che allora aveva quasi due anni.

Vent’anni da quando abbiamo traslocato nella casa in cui ancora viviamo e che abbiamo appena – forse, ma questa è un’altra storia, uff! – finito di pagare.

In questi vent’anni sono accadute tante cose, felici e tristissime, che sarebbero potute non accadere, semplicemente perché non avrei avuto la possibilità di viverle.

Il corpo ferito e ricucito, le cure faticose, i traguardi di guarigione, Lula che cresceva e con la sua presenza luminosa mi obbligava (e mi obbliga) a restare salda su quel filo alto su cui procedo come una funambola, questo blog, il matrimonio, la ricaduta, altre cure, altra fatica, altre cicatrici, altra guarigione, altra vita. L’amore, le amicizie, la famiglia che soffre e sostiene, gli anni del coro e dello yoga, la danza, i viaggi, il lavoro non particolarmente amato, i libri, la scrittura, l’attenzione costante alle cose del mondo, purtroppo spesso motivo di rabbia e frustrazione. Raccontare, raccontare, condividere, scrivere, abbattere i tabù, incoraggiare, incontrare le tante persone che sono passate da qui, da questo blog che s’è fatto vecchio pure lui, che trascuro ma non abbandono.

Oggi un pensiero speciale lo devo al dottor Zeta, che oggi compie gli anni e ha appena iniziato a godersi una meritata pensione. “Vedrà, le porterà bene”, mi disse il giorno della prima visita, mentre compilava la mia cartella clinica e scriveva la data della quadrantectomia: 9 novembre 1999.

Mi ha portato bene, sono qui a raccontarlo, vent’anni dopo.

Sono qui, ma quanto dolore alle spalle, che fatica liberarmi dal viluppo soffocante che mi ha condizionato per tanto tempo, imparare a camminare sulla fune con più leggerezza e recuperare una dimensione esistenziale che temevo di avere irrimediabilmente perduta!

Ho dovuto accettare il fatto che affrontare il cancro non è una competenza trasmissibile e che quel che imparavo facesse parte della mia natura e del modo in cui le esperienze più profonde la stavano plasmano.

Questa consapevolezza credo sia stata per me una sconfitta, e la ragione per cui a un certo punto mi sono stancata di essere considerata una sorta di esperta in tecniche di sopravvivenza oncologica. Ho visto spegnersi davanti a me persone importantissime: la veloce e feroce malattia di mio padre prima, quella più subdola e altrettanto feroce di una delle mie più care amiche hanno rappresentato una battuta di arresto che mi ha fatto vacillare pericolosamente, anche se ormai ero diventata capace di accettare anche gli esiti più infausti.

Ci sono decine di persone che dovrei ringraziare per aver contribuito, ognuno in modo diverso, a farmi arrivare fin qui. Ciascuno di voi lo sa, lo può immaginare.

In coincidenza con il primo decennio ho scritto Come una funambola, oggi mi limito a queste poche righe, che di quel libro sono figlie devote e ribelli.

 

 

 

Non sono tutti uguali

Ci ho pensato un po’, e alla fine ho deciso di scrivere qualcosa sulla polemica di questi giorni scatenata su twitter dalle parole usate della conduttrice Nadia Toffa per annunciare l’uscita di un suo libro: “vi spiego come sono riuscita a trasformare quello che tutti considerano una sfiga, il cancro, in un dono, un’occasione, un’opportunità. Pieno d’amore.”

Una come me, che per tanti anni, attraverso questo blog, il portale collettivo Oltreilcancro e due libri, ha raccontato la malattia, la guarigione, intrecciato relazioni con altre donne per sconfiggere il tabù del silenzio legato al cancro, figuriamoci se non solidarizza con tutte le persone che scelgono di raccontare, esporsi, incoraggiare a infrangere lo stigma.

E quindi brava Nadia, e in bocca al lupo per il libro, ma soprattutto per te, per la tua salute e per la tua nuova vita.

Però proprio tu che sei una donna più esposta di altre, conosciuta, seguita e giustamente apprezzata anche per il modo in cui hai affrontato la malattia, la tua malattia, il tuo cancro, devi sapere che le parole, soprattutto se contratte nello spazio limitato di un tweet possono diventare pesanti, sbagliate, offensive, quando invece l’intenzione, lo capisco davvero, magari era solo quello di trasmettere un messaggio positivo, incoraggiante.

Perché no, i tumori non sono tutti uguali, come scrivi in risposta ai primi commenti perplessi, non è vero che se ce l’hai fatta tu allora ce la possono fare tutti, non è vero che basta curarsi, controllarsi, e metterci tutta l’energia positiva possibile per guarire.

Succede. A me è successo. Dopo quasi vent’anni dal primo cancro al seno, e tredici dalla scoperta delle sue metastasi, posso dirlo.

E tante volte ho incoraggiato altri a combattere con determinazione quella che definivo una battaglia (non una guerra, attenzione) anche quando le forze in campo erano drammaticamente impari. L’ho fatto con le mie amiche blogger che non ci sono più, Anna e Anna Lisa, l’ho fatto con mio padre, l’ho fatto con l’amica/sorella Silvia. Assenze che ora pesano troppo per lasciar correre riflessioni così leggere.

Certo che l’atteggiamento positivo aiuta a guarire. Qualunque malattia peggiora se il nostro stato d’animo è negativo. Il mio oncologo parlava sempre di concause quando tentavo di estorcergli parole definitive sulle cause del cancro. Sono convinta che molto dipenda da quello che ci accade dentro, traumi, stress, depressione. Ma il processo inverso è più complicato, e non dobbiamo colpevolizzarci se non riusciamo a governare la nostra mente al punto da rendere sempre reversibile il processo della malattia. Per fortuna in questo ci aiuta la medicina, la scienza, un sistema sanitario che permette anche a chi è più povero di ricevere le cure più avanzate. Anche questo però, certe volte, non basta.

Ho letto la sofferenza nei molti commenti di chi non può sentir definire una malattia che può uccidere e uccide “un dono”. Poi, purtroppo, c’è sempre chi esagera e insulta, senza nemmeno provare a comprendere che cosa significhi vivere con il cancro, con le terapie che sembrano più cattive del male, con la fatica, sostenuta però dal desiderio di ricominciare un’esistenza nuova, arricchita per certi versi (da qui, lo capisco, l’origine del tuo trasformare in dono), depauperata per altri.

Viviamo in tempi in cui la comunicazione può cannibalizzare il pensiero vomitando a singhiozzo paure, rabbia, meschinità, odio vero.

Per questo non ho affidato le mie riflessioni a twitter (riflessione e twitter probabilmente non sono termini compatibili), ma qui, nel mio vecchio blog, dove le parole si assestano con il tempo, i ricordi e le storie vissute.

La presentazione a Più libri più liberi

1461200_10202520139034075_1754694693_nIeri mi sono presa un giorno di ferie per prepararmi con calma alla presentazione di Scriverne fa bene, alla fiera dell’editoria Più libri più liberi. Mattinata tranquilla, un po’ di shopping, non so quante volte ho ripetuto il discorsetto che pensavo di fare – e come immaginavo poi ho fatto in modo molto diverso – mentre l’ansia iniziava a salire. Raggiungendo l’apice quando ho ricevuto la telefonata di Silvia Tessitore, la mia editor e responsabile della collana Storie vere, nonché sollecitatrice, come forse ho già scritto altrove, del libro: “vogliono intervistare te e Ritanna Armeni dalla postazione di Fahrenheit prima della presentazione.” Wow! Fahrenheit, la bella trasmissione sui libri di Radio 3… Pranzetto veloce con Lula, un po’ di relax con la gatta sulla pancia, agitazione, calcolo dei tempi per attraversare Roma e arrivare al palazzo dei congressi dell’Eur. Calcolo sbagliato. Ma soprattutto, ho deciso di ignorare il navigatore dell’Iphone che mi consigliava strade che io scientemente ignoravo, per seguire quello stupido proverbio “chi lascia la via vecchia per la nuova”. Insomma, sono arrivata un po’ in ritardo, non troppo, però avevo messo in allarme telefonico Sten che, a intervista conclusa e presentazione quasi iniziata ancora mi aspettava all’ingresso principale insieme a un po’ di amici, tutti convinti che avessi lisciato l’intervista e che probabilmente non sarei arrivata in tempo per la presentazione.

Comunque, il podcast della trasmissione ancora non c’è, ma pare che sia andata bene. [ora c’è!  http://www.radio.rai.it/podcast/A42735644.mp3 più o meno dal 42′]. In effetti sentire prima di me le belle parole di Ritanna Armeni sul libro mi hanno tranquillizzata parecchio. Loredana Lipperini, la conduttrice di Fahrenheit, mi ha chiesto di raccontare com’è nato il libro, e prima ancora il blog, quindi niente di troppo difficile…

Dopo via, al primo piano, nella sala più grande di tutte, a incontrare Elisa Manacorda, amica e sempre impeccabile moderatrice, l’oncologa Teresa Gamucci, arrivata insieme a Zeta e con lui coinvolta nel Comitato scientifico di Annastaccatolisa, e il professor Spinsanti, che ha sostituito la sociologa Stefania Polvani, purtroppo impossibilitata a venire da Firenze. Quando finalmente ho avvisato Sten che non ero più da tempo bloccata nel traffico e la sala ha iniziato a riempirsi abbiamo iniziato, confortata dai tanti volti amici, e da qualche sorpresa, come rivedere una delle prime blogger che ho seguito appena aperto il blog, trasferita a Roma da pochi mesi e che, per quelle strane coincidenze della vita, è una grande amica di Silvia Tessitore.

Elisa ha introdotto la piacevole chiacchierata – perché così mi è sembrata – dicendo molte delle cose che avrei detto io, se non lo avesse fatto già lei… Ormai mi conosce e interpreta perfettamente quello che scrivo.

Non è facile per me ricostruire e riscrivere tutto ciò che è stato detto. Ritanna Armeni, giornalista e lettrice attenta ma che non aveva mai seguito un blog, ha sottolineato soprattutto le parole di verità del libro, insieme alla carica di vitalità che emerge dalla lettura dei post citati e al concludere che sì, effettivamente scriverne fa bene, perché sembra davvero che il cancro abbia fatto emergere la parte migliore di ciascuna di noi. Quando ha scelto di leggere un brano dal post di Anna sulla morte ho avuto un sussulto. Come molti di noi, in sala.

E dopo di lei il professor Spinsanti, che ha fatto una breve intensa lezione sulla medicina narrativa, sulle sue diverse accezioni, e su quanto sia necessaria la narrazione per migliorare la relazione tra medici e pazienti.

E Teresa Gamucci, che ha spiegato con semplicità e passione l’importanza per un’oncologa che si occupa soprattutto di cancro al seno che le proprie pazienti siano donne consapevoli della propria malattia. E la scrittura permette di acquisire questa consapevolezza e renderle capaci di affrontare meglio il duro percorso di cura e tutte le conseguenze che porta con sé, nel corpo, nei rapporti di coppia, nell’equilibrio emotivo.

Davvero, io alla fine pensavo di non avere più molto da dire, se non ricordare a chi è dedicato il libro, alle due amiche e blogger che non ci sono più, Anna e Anna Lisa, ma che credevano fortemente nella blogterapia e nel potere della scrittura condivisa. Poi ho detto anche qualcos’altro, sul muro di silenzio e sulla solitudine che una voce restituita dalla narrazione può infrangere. Ma giuro, non ricordo più se quello che pensavo di dire l’ho detto davvero, o se è rimasto tra le cose che mi frullavano in mente mentre raccontavo di noi, e di loro. Un pianto me l’ero fatto prima, a casa. Così in quel momento sono riuscita a trattenere le lacrime.

Più tardi però, allo stand dell’editrice Zona, mentre firmavo qualche copia del libro, è finita a tarallucci e vino.

Salute seno. Un nuovo aiuto per le donne

Da ieri è online su D Repubblica un portale  integralmente dedicato al tumore del seno.

Si chiama Salute seno, e il modo migliore per presentarlo è farlo con le parole utilizzate da chi lo ha pensato e costruito: “in questo sito trovate tutto quello che c’è da sapere sul male che colpisce in media 1 donna su 9 in Italia. I dossier informativi su ogni aspetto della malattia e della cura, le schede delle associazioni e degli ospedali dove curarsi, gli esperti pronti a rispondere ai vostri dubbi, le video testimonianze delle donne che raccontano la loro malattia e come ce l’hanno fatta. I testimonial eccellenti che spiegano perché investono se stessi in questa battaglia. E poi ancora le notizie giorno per giorno che riguardano le nuove scoperte e le iniziative e tanti articoli che aiutano a capire come riuscire a non sentirsi “solo” delle malate, a Vivere una vita normale prendendosi cura di sé, ritrovando l’armonia con il partner e scegliendo il modo giusto per vivere anche questa esperienza con i figli.”

Conosco alcune delle giornaliste che ci stanno lavorando, con passione e grande competenza e anche per questo ho deciso di partecipare a questo bel progetto con la mia testimonianza e segnalando tra le associazioni Annastaccatolisa.

Oltre a costituire un supporto qualificato per le tantissime donne che si ammalano di cancro al seno, il progetto ha l’obbiettivo ambizioso di far raddoppiare entro il 2016 il numero dei centri di senologia specializzati (oggi 30 in tutta Italia).

Mi sembra giusto dare il benvenuto a questo nuovo aiuto per le donne.

13. Strategia per le ossa

Ieri, 9 novembre, ho superato un altro traguardo. Tredici, dico tredici, anni da quando mi sono risvegliata dopo l’intervento chirurgico senza un quarto di seno, e con la notizia che mi era stato tolto non un innocuo nodulo ma un cancro. Ho fatto gli auguri al dottor Zeta, visto che era anche il suo compleanno, e gli ho anticipato che sarò indisciplinata riguardo al farmaco che mi ha prescritto qualche giorno fa, quando sono andata ad aggiornare la cartella clinica con gli ultimi esami di controllo.

Dopo avermi confermato che devo proseguire la terapia ormonale, più o meno ad oltranza, a meno che non voglia – ma non lo voglio – consultare altri oncologi, mi ha prescritto un farmaco contro l’osteoporosi – che ancora non ho, ma che potrei avere con altissima probabilità. Ho subito sbuffato e chiesto degli effetti collaterali. Lui si è un po’ arrabbiato: “Possibile che voi pazienti pensiate sempre alle controindicazioni dei farmaci, invece che alle indicazioni?” Allora lì per lì ho ceduto. Però ci sto rimuginando da qualche giorno, e ho deciso che questa volta disubbidirò, perché danza, equiseto e mandorle mi aiuteranno a non far progredire l’osteopenia provocata da farmaci e menopausa indotta. Gli proporrò di contrattare ancora un anno, poi alla prossima MOC ne riparleremo.

Alle mie ossette voglio continuare a pensarci come dico io, visto che anche il colesterolo provocato dal Femara l’ho domato con un buon fitoterapico a base di lievito rosso.

So già che lui sarà comprensivo, ormai mi conosce, e sa che quando si tratta di fare il gioco duro non mi sottraggo. In questo caso però è giusto che mi lasci ampia libertà di scelta per i problemi collaterali che in tutti questi anni ho sempre risolto in modo “alternativo”.

E allora danzare, danzare… Lunedì con la mia bravissima insegnante inizieremo a fare improvvisazione, per arrivare a inventare delle brevi coreografie e, soprattutto, per acquistare maggior consapevolezza del lavoro che si fa sul corpo, nello spazio, con il ritmo e la musica.

Le mie ossa ringraziano, e io, da ogni cellula del corpo, mi sento già più felice.

Attese, impegno, soddisfazioni

C’è ancora tempo prima di esaminare con più accuratezza il fegatuccio. Un mese mi è stato abbonato, ma almeno due devono passare dalla tac di luglio, quindi aspetto e penso ad altro. Ah ah ah! No, davvero, penso ad altro. Ho avuto e ho un bel po’ da fare per Annastaccatolisa, sono arrivate delle belle candidature per la borsa di studio e il 6 ottobre a Montecatini ci sarà la premiazione, un convegno divulgativo sui carcinomi mammari triplo negativi e naturalmente si parlerà di Anna Lisa, della scrittura che cura e dell’importanza della solidarietà per sostenere la ricerca scientifica. L’associazione non ha nemmeno nove mesi, e mi sembra gigantesco quello che siamo riusciti a fare, quello che tutti voi avete contribuito a fare, iscrivendovi, facendo un’offerta, partecipando alle iniziative organizzate per la raccolta fondi.

Sarebbe bello incontrarci tutte e tutti, quel giorno. Anzi, come avrebbe detto Anna Lisa, “sarebbe ganzo”.

Post accaldato e importanti comunicazioni su Annastaccatolisa

Sarebbe quasi ora di mettere il blog in ferie. Con questo caldo, e con la scarsa capacità di concentrazione che ne è diretta conseguenza, credo che non vi perdereste niente. In questi giorni sono stata presa dalla partenza di Lula per l’Irlanda, due settimana in college a Dublino, prima esperienza da sola all’estero, prima volta fuori casa senza nemmeno una persona amica. Siamo riuscite a preparare un bagaglio ridotto all’osso, visto che era scattato l’allarme peso : 15 chili da imbarcare, 5 a mano. Forse abbiamo esagerato, e quando ha scoperto che molti hanno sforato senza conseguenze si è lamentata. Almeno ho trovato la scusa per non farle portare la maledetta piastra per i capelli, eh eh.

Una cosa importante però vorrei ricordarvela, se dovessi non avere davvero più voglia ed energie sufficienti per scrivere ancora qualcosa entro la fine di luglio. Sono stati prorogati al 7 settembre i termini per presentare la domanda per la borsa di studio bandita da Annastaccatolisa. Si tratta di 20.000 euro per un anno, una cifra importante, soprattutto in tempi di tagli brutali anche alla ricerca (sì, sto parlando della famigerata spending review), per sostenere l’attività di ricerca di un laureato nell’ambito di un progetto sui carcinomi mammari triplo negativi. Passate parola, tra università e istituti di ricerca, perché i fondi raccolti in questi mesi possano servire a trovare nuove cure, o almeno a fare un passo avanti su quella strada.

Quest’anno s’è danzato

Domenica c’è stata la Race for the cure, e non ne ho parlato né ci sono andata. C’era il tacito accordo, tra noi romane, che quest’anno sarebbe stato troppo difficile, perché il pensiero sarebbe andato lì, alla Race del 2011, sotto al sole caldo insieme ad Anna Lisa, e ai nostri compagni, mariti, che si erano conosciuti la sera prima durante una cena indimenticabile.

Il pensiero è andato comunque lì, e ci va ora, a  un anno esatto dal post nel quale raccontavo quel fine settimana felice. Felice per noi, felice per Anna Lisa e per Andrea.

Domenica non sono andata alla Race ma ho danzato per lei e per l’associazione, che grazie alle offerte di amici e parenti che sono venuti a vedere lo spettacolo ha incassato una bella cifra.

Nonostante il dolore per tutto quello che è successo in questo terribile fine settimana è stato bello vivere un’esperienza che avevo vissuto solo una volta, e tanto tempo fa. L’emozione di ballare su un palco, la confusione del dietro le quinte tanto da farmi dimenticare, a un certo punto, di rientrare in scena (eh, eh, meno male che il pubblico non poteva notarlo), la tensione del giorno prima, le prove generali, i camerini, l’attacco con Aretha Franklin, il gospel di Revelations, la coreografia scandita dalla voce roca del Boss, sbirciare in platea per riuscire a vedere parte dello spettacolo, tanti Beatles, Piazzolla, Duke Ellington, Frank Zappa, Benny Moré, Aquarius, Nina Simone e pure Don Backy. Bello, bellissimo.

Qualche giorno prima mi ero detta, ma chi me l’ha fatto fare? Troppa fatica, troppe prove, sarò ridicola. Ma come mi è venuto in mente di farmi coinvolgere?

Ora lo so. Perché fa bene al cuore.

[Danziamo, danziamo, altrimenti siamo perduti… Pina Bausch]


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