Sono venti.
Vent’anni dall’intervento chirurgico con cui mi è stato tolto un nodulo sospetto al seno, che poi quel giorno, sotto i ferri, si è rivelato essere cancro.
Due decenni, quasi l’intera vita di Lula, che allora aveva quasi due anni.
Vent’anni da quando abbiamo traslocato nella casa in cui ancora viviamo e che abbiamo appena – forse, ma questa è un’altra storia, uff! – finito di pagare.
In questi vent’anni sono accadute tante cose, felici e tristissime, che sarebbero potute non accadere, semplicemente perché non avrei avuto la possibilità di viverle.
Il corpo ferito e ricucito, le cure faticose, i traguardi di guarigione, Lula che cresceva e con la sua presenza luminosa mi obbligava (e mi obbliga) a restare salda su quel filo alto su cui procedo come una funambola, questo blog, il matrimonio, la ricaduta, altre cure, altra fatica, altre cicatrici, altra guarigione, altra vita. L’amore, le amicizie, la famiglia che soffre e sostiene, gli anni del coro e dello yoga, la danza, i viaggi, il lavoro non particolarmente amato, i libri, la scrittura, l’attenzione costante alle cose del mondo, purtroppo spesso motivo di rabbia e frustrazione. Raccontare, raccontare, condividere, scrivere, abbattere i tabù, incoraggiare, incontrare le tante persone che sono passate da qui, da questo blog che s’è fatto vecchio pure lui, che trascuro ma non abbandono.
Oggi un pensiero speciale lo devo al dottor Zeta, che oggi compie gli anni e ha appena iniziato a godersi una meritata pensione. “Vedrà, le porterà bene”, mi disse il giorno della prima visita, mentre compilava la mia cartella clinica e scriveva la data della quadrantectomia: 9 novembre 1999.
Mi ha portato bene, sono qui a raccontarlo, vent’anni dopo.
Sono qui, ma quanto dolore alle spalle, che fatica liberarmi dal viluppo soffocante che mi ha condizionato per tanto tempo, imparare a camminare sulla fune con più leggerezza e recuperare una dimensione esistenziale che temevo di avere irrimediabilmente perduta!
Ho dovuto accettare il fatto che affrontare il cancro non è una competenza trasmissibile e che quel che imparavo facesse parte della mia natura e del modo in cui le esperienze più profonde la stavano plasmano.
Questa consapevolezza credo sia stata per me una sconfitta, e la ragione per cui a un certo punto mi sono stancata di essere considerata una sorta di esperta in tecniche di sopravvivenza oncologica. Ho visto spegnersi davanti a me persone importantissime: la veloce e feroce malattia di mio padre prima, quella più subdola e altrettanto feroce di una delle mie più care amiche hanno rappresentato una battuta di arresto che mi ha fatto vacillare pericolosamente, anche se ormai ero diventata capace di accettare anche gli esiti più infausti.
Ci sono decine di persone che dovrei ringraziare per aver contribuito, ognuno in modo diverso, a farmi arrivare fin qui. Ciascuno di voi lo sa, lo può immaginare.
In coincidenza con il primo decennio ho scritto Come una funambola, oggi mi limito a queste poche righe, che di quel libro sono figlie devote e ribelli.
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