Archive for the 'Come una funambola' Category

9 novembre 1999

Come ogni anno quando arriva il 9 novembre non posso fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, ripensando a quella data piena di 9 che costituì uno spartiacque fondamentale nella mia vita: il giorno in cui ho saputo di avere il cancro, anzi, il giorno in cui mi è stato tolto il cancro, insieme a quel pezzo di tetta che lo conteneva.

Un anno in più, anche se poi il contatore è ripartito quando ho scoperto che dopo sei anni le cellule cattive si erano ringalluzzite, e tutta la faccenda è raccontata qui, in questo blog che si è preso cura di me con splendidi risultati.

Ogni anno, quando arriva questa data, non dimentico di fare gli auguri di compleanno al dottor Zeta, che sottolineò fin dalla prima visita che la coincidenza sarebbe stata di buon auspicio, e faccio gli auguri a me stessa per questa ricorrenza speciale.

Pochi giorni fa una bella persona che conoscevo da molto tempo, ma a cui mi ero avvicinata solo negli ultimi mesi, è morta per un cancro al seno molto più cattivo del mio. Facevamo lunghe chiacchierate al telefono, ci scambiavamo messaggi, e l’unica volta che sono potuta andare a trovarla ho capito che non avrebbe avuto molto tempo. E lo sapeva anche lei. Però non smetteva di sorridere, e di interessarsi alle faccende per le quali avevo chiesto i suoi consigli.

Ecco, anche per questo non devo dimenticarmi di ricordare questa data, quel giorno doloroso e salvifico di ventitré anni fa.

Vent’anni di funambolismo

Sono venti.

Vent’anni dall’intervento chirurgico con cui mi è stato tolto un nodulo sospetto al seno, che poi quel giorno, sotto i ferri, si è rivelato essere cancro.

Due decenni, quasi l’intera vita di Lula, che allora aveva quasi due anni.

Vent’anni da quando abbiamo traslocato nella casa in cui ancora viviamo e che abbiamo appena – forse, ma questa è un’altra storia, uff! – finito di pagare.

In questi vent’anni sono accadute tante cose, felici e tristissime, che sarebbero potute non accadere, semplicemente perché non avrei avuto la possibilità di viverle.

Il corpo ferito e ricucito, le cure faticose, i traguardi di guarigione, Lula che cresceva e con la sua presenza luminosa mi obbligava (e mi obbliga) a restare salda su quel filo alto su cui procedo come una funambola, questo blog, il matrimonio, la ricaduta, altre cure, altra fatica, altre cicatrici, altra guarigione, altra vita. L’amore, le amicizie, la famiglia che soffre e sostiene, gli anni del coro e dello yoga, la danza, i viaggi, il lavoro non particolarmente amato, i libri, la scrittura, l’attenzione costante alle cose del mondo, purtroppo spesso motivo di rabbia e frustrazione. Raccontare, raccontare, condividere, scrivere, abbattere i tabù, incoraggiare, incontrare le tante persone che sono passate da qui, da questo blog che s’è fatto vecchio pure lui, che trascuro ma non abbandono.

Oggi un pensiero speciale lo devo al dottor Zeta, che oggi compie gli anni e ha appena iniziato a godersi una meritata pensione. “Vedrà, le porterà bene”, mi disse il giorno della prima visita, mentre compilava la mia cartella clinica e scriveva la data della quadrantectomia: 9 novembre 1999.

Mi ha portato bene, sono qui a raccontarlo, vent’anni dopo.

Sono qui, ma quanto dolore alle spalle, che fatica liberarmi dal viluppo soffocante che mi ha condizionato per tanto tempo, imparare a camminare sulla fune con più leggerezza e recuperare una dimensione esistenziale che temevo di avere irrimediabilmente perduta!

Ho dovuto accettare il fatto che affrontare il cancro non è una competenza trasmissibile e che quel che imparavo facesse parte della mia natura e del modo in cui le esperienze più profonde la stavano plasmano.

Questa consapevolezza credo sia stata per me una sconfitta, e la ragione per cui a un certo punto mi sono stancata di essere considerata una sorta di esperta in tecniche di sopravvivenza oncologica. Ho visto spegnersi davanti a me persone importantissime: la veloce e feroce malattia di mio padre prima, quella più subdola e altrettanto feroce di una delle mie più care amiche hanno rappresentato una battuta di arresto che mi ha fatto vacillare pericolosamente, anche se ormai ero diventata capace di accettare anche gli esiti più infausti.

Ci sono decine di persone che dovrei ringraziare per aver contribuito, ognuno in modo diverso, a farmi arrivare fin qui. Ciascuno di voi lo sa, lo può immaginare.

In coincidenza con il primo decennio ho scritto Come una funambola, oggi mi limito a queste poche righe, che di quel libro sono figlie devote e ribelli.

 

 

 

Recupero

Una bella sensazione di libertà, un impegno portato a termine, almeno per ora, perché non mi aspetto certo di non doverci mettere più le mani e la testa sopra. Ma ora, davvero, ho bisogno di pensare ad altro, di scrivere d’altro, e di vivere nel presente e per il futuro. Basta rimuginare sul passato, su quel che è stato, su cosa ho fatto per superare quel periodo. Sono contenta, sempre, se posso aiutare qualcuno raccontando di me, di noi che ci siamo trovate a condividere le nostre storie. Quando qualcuno mi scrive per ringraziarmi di aver scritto Come una funambola mi commuovo, e un po’ mi dispiace perché quel libro, lo dico senza presunzione, si meritava un editore vero. Ora ne sono convinta.

Ma la chiudo qui, riparleremo di quello che ho finito di scrivere quando sarà pronto per uscire, tra qualche mese. Spero.

Nel frattempo ho del tempo da recuperare. Sarà un caso, ma ho ricominciato a leggere Proust (ma ancora non sono sicura di riuscire a ripetere l’impresa di quasi trent’anni fa).

Primo maggio fuori tema

Se questo blog non dovesse più raccogliere i miei sfoghi non avrebbe più senso.

Mettiamola così: non mi pare un bel periodo da nessun punto di vista, né personale e men che mai collettivo. Ma è soprattutto il disagio personale che in questo momento mi fa sentire come zavorrata, pesante, malinconica e non-felice. Infelice sarebbe troppo, ma non-felice rende bene l’idea. Credo.

Come se una fase della vita si fosse chiusa, e quella nuova non fosse nemmeno allo stadio embrionale. Un certo accumularsi di pesi che non ho più il fisico per sostenere, anche perché il fisico, il corpo, ha lottato come un leone in questi tredici anni e mezzo, e ti credo che non può più ruggire come un tempo. Che a questa faccenda del corpo si aggancia quella del sesso, ne parlavamo sabato scorso con Anna, Mia e Rosie, quando ci siamo incontrate da Eataly. Ci si rassegna ad una più o meno drastica pace dei sensi, che stupidaggine chiamarla così. Non credo che i sensi possano stare in pace, caso mai sono stati messi a tacere dalle terapie, dalle preoccupazioni troppo grandi, dal cancro che ci ha strappato vitalità dagli anni che potevano essere i migliori. Ho consigliato a tutte di non rassegnarci, ma tra il dire e il fare il mare non manca mai.

Sento disarticolarsi la struttura del ruolo svolto, e il fatto che a Lula manchi pochissimo, poco più di due anni, a diventare maggiorenne (e quindi adulta), mi fa sentire orgogliosa di me, di noi e di lei, ma sempre meno indispensabile alla costruzione della sua vita. Solo tanto preoccupata che possa diventare come se la immagina ora o come cercherà di realizzarla in futuro. Sostenuta da una società migliore di quella che sta franando – che è franata – sotto ai nostri occhi.

Conosco bene il dolore che provoca il morso della depressione, conosco il buio e lo smarrimento di quel male. E so che per dire quel male non si trovano parole, almeno non mentre lo si vive. Quindi so che non si tratta di quello. Non sono depressa, se non vagamente. Come stato d’animo e non come stato psichico. E se il mio prezioso supporto che tanto tempo fa mi ha tirata fuori dal gorgo dovesse leggere queste mie parole capirà cosa intendo.

Tuttavia, buon primo maggio, lavoratrici, lavoratori, disoccupate e disoccupati, e perdonate la tirata che con il lavoro non c’azzecca niente. Ma oggi mi va così.

Tac time

Sono già arrivata al momento dei controlli semestrali, e visto l’allarme di luglio mi tocca ripetere anche la tac, anche se l’ecografia autunnale aveva fugato ogni dubbio.

Domani inizio con un banale prelievo di sangue, martedì tac, mercoledì mammografia più ecografie mammarie. Et voilà.

Ogni volta che Zeta mi chiede quanto anni sono trascorsi dall’asportazione chirurgica delle metastasi si compiace del tempo passato senza brutte sorprese. Mi compiaccio pure io, sette anni cominciano ad essere un periodo importante di libertà dalla malattia, tanto da affrontare i prossimi giorni senza preoccupazione. Temo solo d’imbattermi nuovamente in un’infermiera incapace che mi sfruguglia le mie povere vene senza riuscire a beccarne una buona dove inserire l’ago da cui iniettare il contrasto. Per il resto niente paranoie, andrà tutto bene. Lo so.

Però sono in crisi, di nuovo, perché fatico molto a scrivere il libro che mi è stato ri-commissionato a dicembre, dopo tentennamenti durati svariati mesi. Già, c’è un’editore, anzi, un’editrice, piccola ma assai buona, che ha fiducia in me e mi ha contro proposto, invece di pubblicare Come una funambola, di scrivere un nuovo libro. Fico! Eh, in parte sì, però mi ero ripromessa di cambiare argomenti di scrittura, e invece alla fine torno sempre lì, da quelle parti, inesorabilmente.  Anche se rispondo male a chi mi suggerisce di farlo, penso spesso pure io che dovrei darci un taglio. Quello che dovevo raccontare sul cancro l’ho raccontato e continuo a sperare che un giorno un editore si decida a ripubblicare la mia creatura, perché l’autopubblicazione è una gran fatica. Quando qualcosa mi urge c’è sempre questo blog, che ho intenzione di continuare a tenere alimentando lo spirito di quando lo avevo aperto più di otto anni fa: uno sguardo sulla mia vita e sul mondo che mi circonda, sulle cose e le persone che mi stanno più a cuore.

Però ho preso un impegno, ho delle scadenze, e quindi vado avanti, titubante, sperando di trovare un po’ di slancio e di piacere nel portare avanti questa impresa.

Due millimetri di strizza

Sto in vacanza, al mare. Non proprio sollevata come speravo. Il mio sospetto sull’espressione del radiologo Esse era fondato: la Tac ha visto una cosetta piccolissima, di due millimetri, non presente in nessuna delle precedenti. Talmente piccola che non è interpretabile in alcun modo, se non aspettando tre mesi secondo il referto, non più di due secondo Esse che ha capito subito che con questo tarlo non posso andare avanti troppo a lungo.

Mi sono presa un colpo? Sì. Ho letto quelle tre righe davanti a Sten che mi aveva accompagnata a ritirare il referto sicuro che fosse tutto ok, ho iniziato a imprecare, mi sono attaccata al telefono per cercare Esse, non l’ho trovato, allora ho chiamato Zeta.

“Eh, le Tac vedono troppo. Potrebbe essere niente, un respiro. Ma non posso farti fare un altro esame, la Pet non vede meno di 5 millimetri. Ha ragione Esse, meglio aspettare tre mesi e ricontrollare.”

“Quindi vado in vacanza… Tranquilla?”

Si è fatto una risata. Ormai mi conosce troppo bene. “Tranquilla capisco che deve essere difficile.”

“Già.”

“Però, guarda, se tutte le cose che ho visto nelle tac dei miei pazienti fossero state davvero metastasi a quest’ora, be’, sarebbero tutti morti.”

Allegria!

Più tardi sono riuscita a parlare anche con Esse, l’ho un po’ rimproverato per non avermi avvisato che aveva scritto quella roba lì sul mio referto. Ma lui dice di non avermi detto nulla perché non gli ha dato troppo peso. Anche lui ha ripetuto la storia che nelle Tac si vedono tante cose che spaventano e poi non sono niente. Come la famosa macchia nera, che mi ha fatto spaventare tempo fa, e che ormai è archiviata come angioma benigno del fegato.

Okkei. Ma state parlando con me, che le sue belle carognette ce le ha avute, esattamente sei anni dopo essere operata al seno. E quanto tempo fa mi sono operata al fegato? Sei anni e mezzo. E dove sta ‘sta cosa di due millimetri? Nello stesso punto di allora.

Quindi non c’è niente da fare. Ho strizza. Una strizza moderata dalla consapevolezza che può essere niente, o qualcosa di innocuo. E moderata anche dal fatto che se ne ho sgominate due, o forse tre, ne posso sgominare anche un’altra. Ma devo essere pronta anche a questo. Non prendiamoci per il culo. Occhei?

Quindi, sappiatelo, non ditemi quella frase “vedrai che non sarà niente.” Perché mi girano ancora di più le palle. Sono io, da sola, a dover metabolizzare la prospettiva dell’attesa e possibilmente a elaborare quei pensieri positivi che tanto mi hanno aiutata in passato. So benissimo che se mi metto nella prospettiva giusta il male non ritorna, o se avesse provato a riaffacciarsi lo sbatto fuori dal mio corpo e estirpo le sue radici velenose dalla mia anima. Ma. Ma la strizza non non si elimina a comando, soprattutto quando è fondata.

Nel frattempo Come una funambola è diventato anche un ebook. Costa 3 euro e 49, e ve lo potete accattare più o meno in tutti i negozi online. Ancora non è stato caricato il formato epub, ma solo il pdf. E per uno strano fenomeno compare il nome Sergio accanto al mio. Aries, tu sai perché…

Recupero, caos e ricerca

Eccomi qua, dopo la pausa necessaria a far sedimentare il post precedente e ad accogliere l’inevitabile dibattito che ha suscitato. Ci saranno ancora occasioni per riparlare di prevenzione e diagnosi precoce, senza le quali non esiste una politica sanitaria efficace contro il cancro.

Adesso mi urge raccontarvi che ho finito di leggere, sottolineare, appuntare con segni vari – pallini, punti esclamativi, linee orizzontali – annotare, commentare, il libro The wounded storyteller  di Arthur W. Frank.

Da questa lettura fondamentale ho tratto l’interpretazione autentica della mia narrazione di malattia (fatta qui e nel libro Come una funambola) e una chiave preziosa per comprendere anche le storie di altre narratrici e narratori feriti dall’esperienza del cancro.

Ho imparato a riconoscere una narrazione di recupero, o del “come prima”, fondata sull’aspettativa della guarigione completa e sulla fiducia che dal viaggio nella malattia si tornerà nello stesso mondo che si era dovuto lasciare provvisoriamente, dalla narrazione caotica, o antinarrazione, caratterizzata dall’assenza di una voce capace di raccontarsi e riflettere su di sé, priva di consequenzialità temporale, di causalità, perché il narratore caotico in realtà non narra, ma prova a dire il caos in cui vive,  in un presente doloroso e frammentato,  non ricorda il passato e non immagina il futuro. Il suo non è un viaggio, ma un abbandono al naufragio. La narrazione di ricerca è invece quella che dopo l’illusione del “come prima” e la confusione del caos, riconosce che il mondo a cui si approderà dopo il naufragio non sarà più lo stesso, e la propria identità (psichica e corporea) subirà una trasformazione nel viaggio attraverso la malattia, che viene accettata e utilizzata ai fini di cambiamento che può coinvolgere non solo il narratore, ma anche gli altri. La persona malata, nella narrazione di ricerca, diventa testimone, che è un termine assai più bello di sopravvissuto.

 

 

Cosa c’è di più brutto?

Il dottor Zeta, rovistando tra i vari pezzi della mia dodecennale cartella clinica che finalmente stiamo aggiornando con gli esami fatti a luglio: “La moc devi rifarla, sono passati due anni.”

“Strano, mi pare di averla fatta da poco. Forse te l’avevo mandata via mail.”

“Stiamo un po’ sbracando con il tuo follow up, eh?”

“Be’, tra un paio di giorni è il tuo compleanno e il mio complecancro. Dodici anni.”

“Già,” fa lui continuando a scartabellare. “E la metastectomia al fegato quando c’è stata? Novembre 2005?”

“No, a novembre del 2005 c’è stata la scoperta, e poi è passato un po’ di tempo per decidere la strategia di attacco, ti ricordi? L’operazione è stata il 12 gennaio 2006.”

“Ah già. Ecco qui. Hai ragione, 12 gennaio 2006.”

“Date indimenticabili.”

Compulso il blog via Iphone e trovo il post di aprile in cui comunicavo che le mie ossette se la passavano assai bene. “Trovata! La moc l’ho fatta ad aprile! Ed era pure meglio della precedente.”

“Come fa ad essere meglio della precedente se quella era già ok?”

Chissà… Il potere di Equiseto, Caisse, frutta secca?

“E adesso non ricominciare con la richiesta d’interrompere la terapia ormonale!”

“No?”

“NO!”

“Ma ho il colesterolo alto per colpa del Femara. E l’Enantone dopo tutto questo tempo che brutte cose mi farà venire?”

Silenzio. Sospira, o forse sbuffa.

“Giorgia?”

“Sì?”

“Cosa c’è di più brutto della malattia?”

Coraggiosa?

Spero che molti di voi siano già in vacanza. Ma so che molti altri lavoreranno. Io invece mi prendo un giorno di ferie perché sono stata invitata a partecipare al talk show del mattino di Rai 3, Cominciamo bene Il tema della puntata è il coraggio, e come per la trasmissione Invincibili, fatico un po’ ad essere considerata portatrice di un valore così grande.  Ma visto l’effetto positivo che ha avuto affrontare il tema in televisione, ho deciso di buttarmi anche questa volta, pure se ho una gran fifa della diretta.

Ma sono molto felice di avere questa opportunità soprattutto perché potrò conoscere Egidia Beretta, sindaco di Bulciago e madre di Vittorio Arrigoni, il volontario pacifista italiano ucciso a Gaza il 15 aprile scorso. Lui sì, era un uomo coraggioso.

 

Invincibile?

Il 22 giugno di cinque anni fai mi è stata somministrata l’ultima infusione di chemio per debellare le metastasi che avevano attaccato il fegato a sei anni dalla prima diagnosi di carcinoma al seno.  Da allora sto bene, immagino anche grazie alla terapia ormonale che continuo ininterrottamente da allora.

Chi mi conosce e conosce questo blog sa perfettamente che non mi sentirete mai cantare vittoria, e che la metafora scelta per dare un titolo alla mia storia è quella del funambolismo. La precarietà di una vita in bilico non corrisponde alla retorica dell’eroe invincibile. Per questo quando mi hanno contattata dalla redazione del programma condotto da Marco Berry, che si chiama proprio Invincibili, ho traccheggiato, spaventata da questo titolo, temendo che potesse pure portarmi sfiga… Alla fine però, come ho già raccontato, mi sono fatta con-vincere. E così succede che mercoledì prossimo, il 22 giugno, a cinque anni esatti dall’ultima seduta di chemio, andrà in onda il servizio in cui  io, Romina e Rosi parleremo della nostra esperienza di invincibili in quanto non vinte dal cancro, di cancer blogging e di Oltreilcancro.it.

Allora sì, forse posso essere definita invincibile, soprattutto dopo aver sentito la definizione che ne ha dato Erri de Luca, ospite fisso della trasmissione, durante la prima puntata: “Invincibili sono quelli che non si lasciano abbattere, scoraggiare, ricacciare indietro da nessuna sconfitta, e dopo ogni batosta sono pronti a risorgere e a battersi di nuovo. Chisciotte che si tira su dai colpi e dalla polvere, pronto alla prossima avventura, è invincibile.”



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