Un mese fa ci siamo chiusi in casa, chi ha potuto ha iniziato a lavorare da casa, chi ha dovuto ha chiuso negozi, interrotto ogni genere di attività che non fosse tra quelle considerate necessarie e essenziali.
Abbiamo iniziato a prendere le distanze, evitare i contatti, indossare mascherine, ricostruire le nostre esistenze negli spazi domestici e nei tragitti obbligati di spostamenti consentiti: spesa, lavoro, assistenza a persone più fragili, come i genitori anziani.
La vita sociale, in tutti i suoi aspetti, da quelli lavorativi a quelli educativi, culturali e ricreativi si svolge in rete. Dalla lezione di scuola, a quella universitaria, dalle riunioni, alle lezioni di yoga, allenamenti, film, serie tv, informazione, visite virtuali a mostre e musei, aperitivi virtuali, videochiamate, singole e di gruppo. E meno male che ce l’abbiamo questa benedetta rete, a cui ci teniamo aggrappati per non affondare nei momenti più duri.
Difficile vivere nel silenzio e nell’isolamento, le pile di libri da leggere attendono la consueta ora serale, e sono rari i momenti di sconnessione.
Non uscire non solo è diventato un obbligo, ma quando si è costretti a compiere quelle attività consentite nelle quali entriamo in contatto con altre persone e mettiamo il naso fuori di casa si sta malissimo. Mascherina, guanti, avvicinamenti pericolosi, lavaggi frenetici, scaffali vuoti, lievito e farina, lievito e farina, tutti a fare il pane e la pizza, le doppie liste della spesa divise in modo scientifico, i soliti irrispettosi che arrivano in coppia e non rispettano le distanze, le polemiche per chi si sfoga correndo per la strada e portando cento volte il cane a pisciare, l’emozione di andare a buttare la spazzatura e fare il giro lungo per tornare, la strada vuota, che bello, non devi stare attenta, e però il portone ormai si apre sempre col gomito.
Una mattina, mentre lavoravo in giardino, ho visto passare un’ambulanza, e rallentare poco più avanti.
Un paio di giorni prima avevo saputo che una persona che conosco, vicina di casa, era in quarantena con tutta la famiglia perché si era ammalata.
Ho scritto subito alla moglie, in preda a un brutto presentimento. “Come va?”
“Ricoverato,” mi ha risposto lei. “Polmonite.”
Abbiamo cenato insieme, un paio di mesi fa. Forse abbiamo anche parlato di questo virus che iniziava a circolare anche in Italia. Nessuno di noi era particolarmente preoccupato.
Un’altra vicina, coperta dalla mascherina che in genere non indossava quando portava fuori il cane, mi ha detto che nella strada ci sono sicuramente altre due persone positive al virus. Una strada a senso unico, non di passaggio perché non porta da nessuna parte, se non nei palazzi di chi ci abita. Piuttosto tranquilla, prima come ora. Ora di più.
Ora si sente che viviamo un tempo sospeso, scandito dall’attesa che il contagio rallenti, rallenti, che i malati guariscano presto, che non si muoia più, che arrivi presto il vaccino, che si possa tornare un po’ per volta a fare una vita quasi normale, che non sarà la stessa, no, certo, sarà tutto diverso, ma sarà bello uscire e stare di nuovo insieme, in modo diverso forse, con i cocci da riattaccare e qualcosa di buono di cui fare tesoro per il futuro.
E come ha scritto un blogger guarito dal Covid, ricordiamoci sempre che “la sanità pubblica è una meraviglia” e chi evade le tasse è complice di un posto in rianimazione in meno.
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