Archive for the 'Vita al tempo del Covid-19' Category

A maggio fioriscono rose e vaccini

Ho ricevuto la prima dose di vaccino anti Covid-19, e il 30 è prevista la seconda. Mi sono sentita sollevata quasi come quando ho iniziato a fare la chemio dopo l’asportazione delle metastasi epatiche e mi rivolgevo con amore al liquido che avrebbe distrutto le cellule cancerose che potevano essere sfuggite alla chirurgia.

“Non mi ammalerò più, mai più,” mi dicevo. E ora, in questi mesi, in quest’anno di pandemia che ha sconvolto il mondo e cancellato tante, troppe vite, mi sono detta che no, il Covid non me lo sarei preso, avrei fatto di tutto per non prendermelo. Stavo iniziando a sentirmi pericolosamente assuefatta a una vita di distanze, chiusure, limitazioni, mascherine. Per questo quando ho saputo che mi sarei potuta vaccinare un po’ prima di quanto previsto per la mia età, “grazie” al fatto di avere avuto il cancro, mi è sembrato un sogno.

Quando l’infermiere con la bandana colorata e il tocco leggero mi ha iniettato la dose di Pfizer ero così felice che lo avrei voluto abbracciare. Mi sono limitata a fotografarlo, un selfie pro vax, tutti e due con gli occhi allegri e il sorriso nascosto dalle mascherine.

Benvenuto maggio, il mese della mia nascita, delle rose e del lavoro. E di tanti anticorpi preziosi.

Un anno dopo, tutto uguale e tutto diverso. Se prima eravamo in tre…

Dopo un anno di vita nella pandemia da Covid-19 siamo ancora qui, a prepararci per l’ennesima chiusura, doppio salto da zona gialla a zona rossa, accompagnata dal contrasto tra l’abitudine a vivere in questo modo più o meno in qualunque colorazione, e l’accumularsi di mancanze e insofferenza. Per quanto tempo ancora? Quando raggiungeremo l’immunità e quindi la libertà? Quando potremo fare quelle piccole e grandi cose che ora ci sono precluse, o sconsigliate, o che semplicemente abbiamo smesso di fare per precauzione e senso di responsabilità?

Per molte persone, per il mondo complessivamente, il costo della pandemia è stato pesantissimo: la vita stessa, il lavoro, gli affetti, la sussistenza. In fondo io non mi posso lamentare, e quello che mi manca, per chi ha sofferto davvero, è irrilevante.

Lula invece, come tutti i giovani che hanno dovuto comprimere e sospendere le tante esperienze che normalmente vivono in un anno normale, stava iniziando ad accusare il colpo. Come per tutti, dopo il bilancio in fondo positivo del primo lockdown core a core in famiglia, e dopo la parentesi estiva di libertà, con l’autunno e l’inverno, il secondo Erasmus in Spagna saltato, il coprifuoco, le limitazioni alla vita sociale, l’ultimo anno di università a distanza, questa vita ha iniziato a starle davvero stretta anche se illuminata da una bella storia d’amore.

E così, proprio oggi, casualmente (ma fortunatamente) alla vigilia del passaggio del Lazio in zona rossa, la figlietta ha spiccato il volo ed è andata a vivere per conto suo. No, non da sola, ma insomma, è andata via di casa, e in linea di massima dovrebbe essere un passo definitivo. Magari dopo la laurea ci sarà un periodo all’estero, lo spero per lei, perché i suoi progetti la vedono cittadina del mondo. Di un mondo a questo punto tutto da ricostruire.

Quando ho aperto questo blog Lula aveva quasi sette anni e subito ne è diventata protagonista. Mi piaceva raccontare di lei, perché mi piaceva raccontare la mia vita in cui lei ovviamente occupava un posto fondamentale. È stato il puntello, insieme a Sten, che mi ha tenuta salda anche nei momenti più difficili, come sa chi mi leggeva un po’ di anni fa.

Per questo sono felice di dedicarle oggi qualche parola, perché negli ultimi tempi è stato difficile capirci, è stato un periodo duro, come spesso sono dure, e quasi crudeli, certe fasi dei rapporti tra madri e figlie. Come fosse ineluttabile lo scontro, la rabbia, la coazione a ripetere schemi, discorsi, pretese.

E ricordo quanto è stato importante il giorno in cui io sono andata via di casa, e sebbene avessi un po’ più dei suoi ventitré anni, i miei pensavano che fosse troppo presto e che stessi facendo un errore. Ma avevo un’amica con cui dividere la sua casa, e ho potuto vivere degli anni meravigliosi con lei, che ora non c’è più. Per questo ho compreso l’urgenza di Lula, alimentata da questo periodo che per le ragazze e i ragazzi è ancora più complicato, senza spazi in cui vivere le loro esperienze, insieme, lontani da noi, e accusati di infrangere troppo spesso le regole e di moltiplicare i contagi con i loro comportamenti.

Sono sicura che è giusto andare fuori casa, se si ha l’opportunità di farlo. Si vive più felici, e di questi tempi un po’ più di felicità non guasta. E si assapora quella libertà che è assurdo voler negare ai propri figli.

E quindi, Lula mia, goditi questo periodo, così nonostante il Covid che ancora non molla la presa, un’altra chiusura a distanza di un anno, lo ricorderai come una dei tanti passi avanti che avrai fatto nella tua vita. Auguri, tesoro mio!

2021

Un nuovo anno carico di aspettative, dopo il 2020 che abbiamo appena lasciato, e insultato, e maledetto come il peggiore anno della nostra storia post bellica.

Nella vita personale di ciascuno può essere andata invece molto meglio, o molto peggio. Ma certo il contesto, le abitudini di vita stravolte, i conteggi quotidiani di malati e di morti, i sacrifici piccoli e grandissimi che tutti abbiamo fatto, non possono in nessun caso fare dell’anno passato un anno buono.

E allora coltiviamo la speranza che da oggi le cose possano migliorare, e che il 2021 possa risarcire almeno in parte i danni scatenati dal 2020. Per molti quel che è perduto è perduto. E non tornerà mai più.

Ma sarebbe ancora più tragico se non tentassimo di fare tesoro di ciò che è accaduto, e se dimenticassimo troppo presto quanto siamo fragili, collegati gli uni con gli altri, bisognosi di una vita collettiva solida, e quanto le nostre azioni si ripercuotono sul mondo intero, sulla Terra e su chi la abita. Sarebbe stato un anno solo orribile, se non ci avesse anche costretto a ripensare stile e priorità di vita, la qualità delle relazioni, il giusto tempo da dedicare agli altri e a se stessi e alle troppe cose importanti e belle che trascuriamo, rimandiamo, dimentichiamo.

Abbiamo scoperto quanto sia difficile governare un Paese, quanti interessi fondamentali entrino in gioco e come ogni scelta lasci fuori necessariamente qualcosa che altri avrebbero tenuto in considerazione.

Ma il minimo comune denominatore, nel 2020, è stato proteggere la salute di tutti da una minaccia che ha portato via quasi due milioni di persone in tutto il mondo. Non dimentichiamolo mai.

E non carichiamo un povero anno di così grandi aspettative. Mi accontenterei che possa aiutare a rimettere insieme un po’ di cocci e a restituirci abbracci, baci e strette di mano. E soprattutto, il vaccino per tutti.

Buon 2021, per chi ancora passa da queste parti…

Covid e prevenzione

Ho pensato spesso, e in questi giorni più di altre volte, a come sarebbero cambiate le cose per me se quindici anni fa ci fosse stata una pandemia di queste proporzioni in corso.

Se fossi stata costretta a rimandare la mia ecografia epatica di controllo, visto che in fondo dopo sei anni da una diagnosi di cancro al seno si pensa di essere fuori pericolo, e che sarà mai, meglio rimandare, meglio evitare di andare in ospedale.

Non è sufficientemente chiaro alle persone cosa significa “stressare il sistema sanitario”, non è sufficientemente chiaro cosa significa quando si ritardano o si interrompono i controlli sulle famose “patologie pregresse” e non c’è nessuno ad avvisarti, per esempio, che il cancro è ricicciato, che sono comparse metastasi, quella brutta parola che non vorresti mai sentire, figurarci scoprire che hanno iniziato a riprodursi nel tuo corpo.

Le diagnosi precoci salvano la vita. Se le diagnosi non vengono fatte, perché gli ospedali sono pieni, perché si ha paura di andare a fare dei controlli per paura di contagiarsi, i rischi di non salvarsi aumentano. Lo hanno gridato gli oncologi di tutto il mondo in questi mesi. Lo stanno dicendo nei congressi, lo scrivono, segnalando che con la pandemia, con i morti per Covid, sono diminuiti gli screening e aumentati i decessi. E lo stesso accade per altre malattie che bisogna poter curare o tenere sotto controllo.

Il Covid è anche questo: fa del male non solo a chi se lo prende, ma a tutte le persone che hanno bisogno di curarsi.

E allora basta, basta con le polemiche, con le minimizzazioni, con il cinismo sugli anziani che se muoiono non è poi così grave, con gli sproloqui sulla “dittatura sanitaria”.

Intollerabile è avere venti diversi livelli di assistenza sanitaria nello stesso Paese. Quando tutto questo sarà finito, ricordiamocelo. Non era accettabile prima del Covid – quante persone ho incontrato, pendolari della salute, in viaggio da una Regione a un’altra per fare esami e ricevere cure adeguate – lo è, drammaticamente, oggi.

Ritorno al mio karma

Ecco, l’estate arrivata già da un mese, di questo anno bisestile e funesto.

Ieri, pedalando, pensavo a quanto ne avrei scritto, di Covid, pandemia, quarantena, mascherine, politica dell’emergenza, qui, anni fa. Quante riflessioni, istantanee, parole con cui costruire un senso.

Pensavo che sono invecchiata, e però non riesco più a dare parole al tempo che passa, alla vita personale che prosegue senza scossoni, ma con una scia di rimpianti che si portano dietro l’intera sequenza di eventi provocati da scelte che se non si fossero compiute, allora… Non sarebbe successo questo, e quest’altro e quest’altro ancora. E invece, se avessi deciso altrimenti, sarebbe potuto accadere questo e quest’altro e quest’altro ancora, fino alla dolorosissima presunzione (o colpevolizzazione) che avrei potuto evitare gli accadimenti più nefasti.

E invece no, reagisce con orgoglio la parte di me più sana, osservando amorevolmente ciò che ha di più caro. Le scelte compiute hanno determinato anche questo, che non cambierei mai. E poi non è ancora troppo tardi per rimettersi in gioco, percorrere strade nuove, rispolverare vecchi desideri, rianimarli, farli risplendere al sole di luglio.

 

2 maggio 2020

Il compleanno nella pandemia.

Il brindisi con Lula e Sten allo scoccare della mezzanotte, un pranzetto al sole in giardino, tante telefonate, tanti messaggi, foto d’infanzia postate insieme agli auguri su facebook, un altro brindisi a distanza, con una quindicina di amici sparsi in giro per il mondo, o dietro casa, un’ottima cena a domicilio, le candeline riciclate da soffiare sulla crostata di crema e fragole fatta da mia madre, che non mi ha potuta abbracciare e baciare, come non mi abbraccia e bacia da quasi due mesi. Per l’occasione, nel pomeriggio, quando sono andata a prendere il dolce, ci siamo messe nel suo giardino a chiacchierare un po’, a distanza, ma senza mascherina. Eravamo ancora in fase 1, e no, non ho osato pranzare con lei.

Il compleanno nella chiusura da pandemia è trascorso così, un po’ strano, ma in un periodo così difficile non potevo chiedere di più. Per questo mi sento fortunata. Un altro anno della mia vita è cominciato.

 

Scriverne?

Mentre sfogliavo un blocco per appunti che ogni tanto utilizzo per scrivere a mano – un’abitudine che non ho perso, perché utilizzando carta e penna mi sembra che i pensieri fluiscano in modo più limpido – ho ritrovato gli appunti presi per la presentazione di Scriverne fa bene a Modena.

“La tesi del libro è che attraverso la narrazione di sé chi si ammala trova la voce giusta per descrivere l’esperienza vissuta, ritrovare l’orientamento e tracciare una nuova rotta per uscire dal naufragio.”

“La parola è un filtro che permette di esibire le proprie ferite e fragilità senza scandalo o vergogna. La parola mi protegge e mi apre al mondo. Per questo scriverne fa bene. Soprattutto attraverso un blog, in rete, in tempo reale.”

La notte prima di questo ritrovamento avevo sognato che il cancro tornava, e che il dottor Zeta, ormai in pensione (che è vero, ma per l’emergenza Covid ha ricominciato a lavorare) stavolta mi avrebbe affidato a un suo collega.

Non ero troppo spaventata, anche perché Zeta mi spiegava che la prognosi era positiva grazie al fatto che mio padre aveva avuto lo stesso tipo di patologia, e nel sogno era ancora vivo. Evidentemente ho mescolato la possibile ereditarietà di una malattia oncologica con l’immunità che si sviluppa contraendo un virus.

Non so perché sto mettendo insieme queste due cose: la funzione delle parole, e le paure che abitano i miei sogni.

Certamente in questo periodo in cui mai si è parlato e scritto così tanto di malattia, salute, cure, guarigioni, ospedali, servizio sanitario pubblico, è inevitabile per me confrontare le due condizioni, quella del cancro, che conosco, e quella di una pandemia che sta sconvolgendo e ha sconvolto il mondo intero.

Anche in questo caso le parole, la scrittura, la narrazione, potranno aiutare chi si è ammalato ad attraversare la tempesta e ridisegnare la mappa per orientare una nuova esistenza?

Materiali di memoria

Il tempo pandemico scorre con un andamento irregolare, anomalo, e certe volte si aggroviglia per poi dipanarsi una volta sciolti i nodi uno ad uno, con delicatezza.

Ho aperto lo sportello di una libreria, giusto per dare un’occhiata al lavoro da fare per mettere un po’ d’ordine in un ripiano dove stanno accatastati album di fotografie – quando ancora si facevano – foto mischiate di periodi diversi, forse dopo essere state attaccate sul frigo con i magneti, materiale per fare pacchetti natalizi, la tombola, scatoline vuote, nastri adesivi, e molto altro.

Sono saltate fuori cose che per un po’ ho contemplato, dopo averle disposte sul pavimento, commossa: una cartolina dell’Irlanda scritta nel 1988 da Silvia, la mia amica del cuore che non c’è più, gli appunti scritti per una lezione che ho fatto nel 2007, per la classe elementare di Lula, sul funzionamento delle biblioteche, un telegramma di congratulazioni per la laurea, gli estratti della pubblicazione della mia tesi, copie del giornale scolastico L’Aerostocco, foto, foto, foto bellissime di Lula piccola, di estati al mare, secchielli in testa, in montagna, gli anni delle chemio con i capelli in ricrescita, il matrimonio, i viaggi, la giraffa della Tanzania.

Ho deciso che l’album delle fotografie delle vacanze estive devo continuarlo, è fermo al 2003, e ci sono ancora tante pagine e tanto tempo da utilizzare.

Un mese

Un mese fa ci siamo chiusi in casa, chi ha potuto ha iniziato a lavorare da casa, chi ha dovuto ha chiuso negozi, interrotto ogni genere di attività che non fosse tra quelle considerate necessarie e essenziali.

Abbiamo iniziato a prendere le distanze, evitare i contatti, indossare mascherine, ricostruire le nostre esistenze negli spazi domestici e nei tragitti obbligati di spostamenti consentiti: spesa, lavoro, assistenza a persone più fragili, come i genitori anziani.

La vita sociale, in tutti i suoi aspetti, da quelli lavorativi a quelli educativi, culturali e ricreativi si svolge in rete. Dalla lezione di scuola, a quella universitaria, dalle riunioni, alle lezioni di yoga, allenamenti, film, serie tv, informazione, visite virtuali a mostre e musei, aperitivi virtuali, videochiamate, singole e di gruppo. E meno male che ce l’abbiamo questa benedetta rete, a cui ci teniamo aggrappati per non affondare nei momenti più duri.

Difficile vivere nel silenzio e nell’isolamento, le pile di libri da leggere attendono la consueta ora serale, e sono rari i momenti di sconnessione.

Non uscire non solo è diventato un obbligo, ma quando si è costretti a compiere quelle attività consentite nelle quali entriamo in contatto con altre persone e mettiamo il naso fuori di casa si sta malissimo. Mascherina, guanti, avvicinamenti pericolosi, lavaggi frenetici, scaffali vuoti, lievito e farina, lievito e farina, tutti a fare il pane e la pizza, le doppie liste della spesa divise in modo scientifico, i soliti irrispettosi che arrivano in coppia e non rispettano le distanze, le polemiche per chi si sfoga correndo per la strada e portando cento volte il cane a pisciare, l’emozione di andare a buttare la spazzatura e fare il giro lungo per tornare, la strada vuota, che bello, non devi stare attenta, e però il portone ormai si apre sempre col gomito.

Una mattina, mentre lavoravo in giardino, ho visto passare un’ambulanza, e rallentare poco più avanti.

Un paio di giorni prima avevo saputo che una persona che conosco, vicina di casa, era in quarantena con tutta la famiglia perché si era ammalata.

Ho scritto subito alla moglie, in preda a un brutto presentimento. “Come va?”

“Ricoverato,” mi ha risposto lei. “Polmonite.”

Abbiamo cenato insieme, un paio di mesi fa. Forse abbiamo anche parlato di questo virus che iniziava a circolare anche in Italia. Nessuno di noi era particolarmente preoccupato.

Un’altra vicina, coperta dalla mascherina che in genere non indossava quando portava fuori il cane, mi ha detto che nella strada ci sono sicuramente altre due persone positive al virus. Una strada a senso unico, non di passaggio perché non porta da nessuna parte, se non nei palazzi di chi ci abita. Piuttosto tranquilla, prima come ora. Ora di più.

Ora si sente che viviamo un tempo sospeso, scandito dall’attesa che il contagio rallenti, rallenti, che i malati guariscano presto, che non si muoia più, che arrivi presto il vaccino, che si possa tornare un po’ per volta a fare una vita quasi normale, che non sarà la stessa, no, certo, sarà tutto diverso, ma sarà bello uscire e stare di nuovo insieme, in modo diverso forse, con i cocci da riattaccare e qualcosa di buono di cui fare tesoro per il futuro.

E come ha scritto un blogger guarito dal Covid, ricordiamoci sempre che “la sanità pubblica è una meraviglia” e chi evade le tasse è complice di un posto in rianimazione in meno.

Il muro

Immaginavo che in questo periodo avrei scritto moltissimo.

Invece no.

Il tempo sembra ancora più limitato, costretto e scandito dallo spazio dell’isolamento, riempito da una routine anomala, per alcuni più faticosa, per me più accettabile. Immagino perché vivo con altre due persone che amo, in una casa spaziosa con un piccolo giardino, da cui posso continuare a lavorare. A cinque minuti a piedi vive mia madre, che piange ogni giorno perché ancora di più di questi tempi sente la mancanza di mio padre, e perché, mi ha detto oggi, vede la sua vita fermata da un muro. Poi si riprende, capisce che la sua condizione è più fortunata di quella di molti altri.

Ma capisco che per le persone anziane questo momento è particolarmente nero, perché se noi possiamo immaginare un mondo diverso, migliore, da costruire fin d’ora e per quando l’emergenza sarà finita, per loro è più difficile guardare oltre quel muro e attraversarlo.

 

 

 

 

 

 


Come una funambola

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