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MI SAREBBE PIACIUTO

Tra le tante cose che fanno negli Stati Uniti e che sarebbe bello un giorno realizzare anche qui c’è questo: http://www.yogabear.org/ yoga specifico per pazienti oncologici, a cui affiancherei anche il Qi gong, potente energizzante per affrontare debolezze e depressioni immunitarie provocate dalle terapie mediche.

Ora che ho la testolina impegnata sul progetto di cui presto, spero, potrò parlare più diffusamente, mi faccio continuamente domande sulle cose di cui avrei avuto bisogno quando ho combattuto le mie battaglie e cosa sono riuscita a compensare utilizzando il blog – perché qualcosa ho compensato. Come dicevamo oggi con Anna, che non ama la metafora bellica, narrare la malattia, sistematizzarla con la scrittura ci aiuta a tenerla a bada, ad averne meno paura. Condividere alleggerisce, comunicare permette di distribuire un peso che è difficile da sopportare tutto sulle proprie spalle. O sopportabile a costi che prima o poi si pagano. Sollecitare il senso di appartenenza ad una comunità in cui sentirsi pienamente comprese, perché comune è un nuovo senso del  vivere, il rovesciamento delle prospettive, la sospensione delle attese, quei piccoli grandi mutamenti caratteriali che possono essere anche molto irritanti per chi ci sta accanto, mentre per noi sono il risultato di un percorso accidentato verso la costruzione di un’identità nuova, di cui dovremmo sempre andare fiere. Perché è un’identità lacerata, rattoppata, ma forse più completa della precedente. Dieci anni fa è successo qualcosa che non passa. Ora ne sono consapevole. Ora non m’interessa dimenticare o recriminare. Ora mi piacerebbe se le cose imparate in questi dieci anni potessero circolare sempre di più tra chi ne ha bisogno. Quello che non trovavo allora era soprattutto questo: comunicazione tra pari. Al di là degli studi scientifici, delle panzane su terapie miracolose, di orribili statistiche di sopravvivenza. Semplice e genuina comunicazione tra persone che condividono diagnosi, terapie, prospettive di guarigione. E una vita da vivere, nonostante tutto.

 

ANDARE, RESTARE, COSTRUIRE oppure, a grande richiesta C’E SEMPRE UNA COSA BUONA DA FARE CHE SI PUO’ FARE

Alla festa dove sono stata ieri, una di quelle belle feste in cui si iniziano le danze con I will survive e si concludono con un lento chick to shoulder (perché a Sten gli arrivo giusto alla spalla, con i tacchi), con un vecchio amico dei tempi del liceo e che non vedevo più da almeno vent’anni, abbiamo parlato tanto dell’idea di andare tutti insieme a vivere da qualche parte, a fare una "comune in comune". Mollare tutto e andarsene in campagna, lui ci vive già, ma vorrebbe avere un po’ di amici intorno. In un momento come questo dificile non trovare un coro di "magari", "trovate il posto e arrivo", "mi licenzierei anche domani se vincessi a win for life". La fuga. Il rifugio. Nello stesso tempo c’è chi t’invita a espatriare, come se fosse alla portata di tutti lasciare l’Italia e trovare un lavoro a Parigi, o a Barcellona. E poi c’è il richiamo dell’impegno politico, intriso dell’ingenua speranza che stiamo assistendo alla caduta definitiva del berlusconismo e che presto ci sarà da ricostruire, a partire dalle fondamenta prese a picconate, un paese migliore. Ingenua speranza. Anche se i tanti tanti gggiovani visti alla manifestazione per la libertà di stampa hanno fatto una certa impressione, a tutti noi ultra quarantenni. Andare alle primarie anche se non è affatto detto che voterò il PD? Punirli ancora per non aver affossato lo scudo fiscale?

In attesa di sciogliere questi dubbi preparo insieme ad Anna un progetto che abbiamo a cuore, e che spero di poter condividere presto insieme alle tante bloggheresse che hanno fatto o stanno facendo del loro diario un luogo terapeutico per sé e per chi le legge.  Almeno di questo sono sicura: c’è sempre una buona cosa da fare che si può fare.

LA COSTRUZIONE DI UN LUOGO DI CURA

Inizio a sentire quell’aria autunnale propizia a mettere in cantiere progetti. Sono giorni che mi frulla nella testa l’idea che questa mia condizione, status, non so bene come definirla, di vittoriosa pluricombattente contro il cancro, possa costituire una ricchezza condivisibile, da redistribuire tra altre donne che forse, almeno all’inizio, ne sono sprovviste. La vecchia associazione tra medici e pazienti del San Giacomo mi pare abbia fatto la stessa brutta fine dell’ospedale (ormai chiuso da quasi un anno), ma quello che ho in mente è qualcosa di più specifico, simile credo a quello che fanno a Modena e in rete le valorose amiche del Cesto di ciliege. Supporto, informazione, condivisione, organizzazione di una rete che possa proteggere e aiutare a far ripartire con una vita nuova, se possibile addirittura migliore. Sogno una sede luminosa, colorata, aperta in un via vai continuo di scambi e opportunità. M’immagino una nuova disciplina psicofisica ("mamma", mi dice spesso Lula quando mi vede alternare per casa posizioni e passi, respiri e movimenti, "dovresti inventarti una cosa che mescoli yoga, qi gong, pilates, e magari anche danza") che integri tutto ciò che può fare bene, attivare energia, aprire il cuore, rendere lo sguardo più luminoso e il respiro tranquillo. E che faccia divertire. Ridere. Bisogna ridere molto, si sa, perché è il miglior modo per rafforzare il sistema immunitario.

Vorrei insegnare a raccontare quello che ci accade senza avere paura e vergogna, a credere nel potere terapeutico della parola, scritta o detta, quando occorre anche urlata.

Mi sembra già di vedere il dottor Zeta che insieme alle terapie consiglia di affacciarsi in questo luogo di ri-costruzione abitato da creature dalle risorse inesauribili, capaci di danzare mentre indossano corazze e brandiscono affilate armi di difesa.

 

FONDAZIONI E CAMPAGNE

Did I crumble
Did I lay down and die
Oh no, not I! I will survive!
Oh and as long as I know how to love I know I stay alive.
I’ve got all my life to live, I’ve got all my love to give.
And I’ll survive!
I will survive! Hey, hey.

("I will survive", Gloria Gaynor)

Sono stata contattata dalla Lance Armstrong Foundation per un incontro con il Presidente Doug Ulman  e altri blogger italiani cancer survivors, come ci chiamano loro, nel quadro della  campagna mondiale contro il cancro .  Il cuore della discussione è sempre quello, a me molto caro, della comunicazione e di come scrivere, e in particolare scrivere un blog, possa aiutare a vivere meglio la propria condizione di malato di cancro e poi di sopravvissuto al cancro (a me però non piace usare questo termine). Le storie sono tutte molto simili: per tutti c’è stata una prima fase in cui non esistevano questi mezzi ed era difficile trovare altri con cui condividerere un’esperienza analoga. E poi una seconda, in cui si trova la strada del web o, come nel mio caso, si scopre di essere già nel "mezzo giusto" per iniziare a produrre e ricevere informazioni utili, sfogare la rabbia, spiegare che una diagnosi di cancro non è necessariamente una condanna a morte ma un grosso problema da risolvere e poi con cui convivere.

Negli Stati Uniti hanno il gigantesco problema di un sistema sanitario che non garantisce l’accesso alle cure, e che lascia morire centinaia di migliaia di persone che non possono permettersi di avere il cancro. Almeno di questo possiamo essere orgogliosi: viviamo in un paese che, secondo l’OMS, è al secondo posto nella graduatoria dei migliori servizi sanitari del mondo. Doug Ulman ci ha raccontato di aver fiducia nell’amministrazione Obama, per iniziare a cambiare un sistema che lui ha definito, giustamente "inaccettabile".

Suggerire quale possano essere i punti chiave giusti per una campagna efficace nel nostro paese non è facile, ma certamente non devono mancare queste due parole: prevenzione e comunicazione.

Con me c’erano Marco, Mia e Luca.

[Resoconti della Livestrong qui e qui]


Come una funambola

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